Cultura
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16/10/2008 20:45

In memoria del mio malinconico amico Franco Antonio Belgiorno

di Redazione

Quando si presentò, all’ombra del pergolato del patio di casa: aveva portamento fiero ed eleganza di modi. Era il pomeriggio di un’estate torrida a Sampieri e Ciccio veniva a godersi un po’ di frescura e l’incanto della conversazione. Aveva 38 anni. Non mi sembrò per niente sciclitano e neppure tanto italiano. Nessuna inflessione, garbo in ogni espressione, educazione inconsueta.

Ero appena arrivato in punta di piedi in quella casa, perchè promesso della nipote più piccola e la più sovversiva della gna’ Michela Traversa. Quella nipote aveva svolto un itinerario formativo tra Sampieri, Modica, Firenze e l’Inghilterra e aveva giurato che mai avrebbe sposato uno sciclitano. Ero la ad assolvere ad una necessità di conoscenza.

Anche Ciccio voleva conoscermi, perchè aveva visto crescere al molo quella bambina, ora fatta donna e ne aveva seguito tutta la traiettoria nel maturare e teneva a sapere chi io fossi. Portava l’immancabile cappello di paglia a falde e gli occhiali da sole. Una camicia bianca leggera e pantaloni con le pence. parlava, parlava Ciccio. Io … qualche sorriso di cortesia e di imbarazzo insieme da ospite e silenzio per capacità mie solite d’ascolto. Affascinava il suo dire  passando da approfondimenti su fatti di cultura locale e culinaria tradizionale, fino ad alti ragionamenti di letteratura e di ogni sapere. Un forte fascino quel primo incontro in me lo generò. Spesso  quell’estate, a determinate ore, passava per un saluto e lo scambio di considerazione. Spesso nel solito patio, aperto al cielo ma chiuso al paese. Lo preferiva al terrazzino sul mare, dove ogni dire si disperdeva nella distrazione. Ci parlava delle idee dei libri in progetto e di quelli appena scritti. Che mia moglie avesse portato, al corso di scrittura creativa che frequentava a Firenze e tenuto da Dacia Maraini, il suo libro “Ore rubate”, lo riempì di soddisfazione. Sapeva che ero di Siracusa e con il passare degli anni sempre più la distanza si riduceva e una vicinanza si stringeva.
Durante l’anno, qualche telefonata tra Firenze e Wiesbaden, ma l’appuntamento estivo era sempre l’occasione di confronto e di proponimenti nuovi. Abitava la “casa dell’oleandro” con la zia Giovanna e la mamma che adorava. Brigitte arrivava tardi e per poco tempo e alcuni anni non scendeva per niente.

Era nella sua bellissima famiglia che trovava la misura della sua esistenza. Adorava sua sorella Giorgetta – la più piccola dei quattro figli – i nipoti Alessandra e Francesco figlio di Duccio, per i quali faceva da zio e un po’ da nonno. Adorava i bambini tutti. Tutti quelli che non aveva avuto, erano come tutti suoi. Aveva il desiderio di insegnare ad osservare, a quelle piccole creature in crescita, con loro si entusiasmava come un bambino tra i bambini. Mi ha riportato più volte la meraviglia che aveva per quel mio primo brillante figlio Lorenzo che lo chiamava “zio Ciccio” e gli domandava – seduti al molo – come respirassero i pesci. Si appassionava per ogni esplorazione di quel bambino anche generosamente considerava geniale, perché il suo animo gentile e sensibile facevano di ogni dire altrui, una ricchezza inestimabile.
Una sera – in quel terrazzo fronte mare che mitizzava – si portò fuori il pianoforte dal soggiorno, Duccio al contrabbasso, Roberto alla tromba, la nipote ra gna Michela Traversa al piano, Emilio alla chitarra e si intrattenne per una lunga notte sotto le stelle sbiadite i villeggianti del molo. Quelle note intonate all’istante, si smorzavano nel pulviscolo dello scirocco e Ciccio insieme a tutti cantava le canzoni della sua giovinezza. Da giovane, in quel piccolo posto di mare era stato, insieme ai suoi fratelli e ad altri, protagonista delle prime seduzioni nelle ragazze che provenivano da lontano.

Quando 15 anni fa mi propose di scrivere con lui su un periodico siracusano – “I siracusani” – di memorie e di cultura aretusea, accettai volentieri. Si collaborò per del tempo a quella rivista, fino al giorno in cui ci si accorse che le tendenze politiche poco democratiche non erano proprio adatte a noi. Avevamo un progetto insieme da tanto tempo: un libro sulla cultura contadina e sulla nobiltà della fine Ottocento primi Novecento, utilizzando un fondo fotografico, che lo entusiasmò quando gli mostrai le lastre di vetro negative che possedevo.

Grande commozione mi trasmise quando, nell’agosto del 1996, presentò un mio lavoro editoriale senza la mia presenza, perché per una urgenza di salute ero assente. Da li a poco, la stessa malattia  colpì anche lui. Io avevo all’epoca la malattia accanto, la stessa che lui portava dentro. Dei giorni mi diceva era stato alla seduta di cure e poi di fretta era tornato a casa da solo. In Germania le macchine che non funzionano vengono messe da parte. Quante volte lo avrei voluto accompagnare per offrirgli un sostegno. Io conoscitore di quei patimenti e della solitudine in cui quel male schiude. Ho preziose sue lettere come distillati di profumi d’anima. Un’anima rara che naviga oggi in un mare sconosciuto.
Quando è tornato in Sicilia, si è ricoverato al Cartellone. Quando andavo a trovarlo, ci si sedeva nel balcone e come sospesi dentro un aliante, si ammirava la facciata opposta della valle venirci incontro. Si vedeva quello scenario scrutandolo nella minuzia e scoprendone ogni sorpresa più nascosta. Si parlava da soli lui ed io, con rare apparizioni della zia Giovanna, che – con garbo antico e tutto modicano – ci portava del the nelle tazzine di porcellana finissima.
Abbiamo avuto nei lunghi anni della nostra frequenza, sempre confronti appassionati ed intimi: le parole tra noi, spesso erano solo per noi. In una complicità che ci derivava da condivisioni di sensibilità e topografiche.

Poi, ormai da più di 10 anni, io ho preferito l’eremitagio a Sampieri. Ho chiuso tutto a quasi tutti. Qualche volta è venuto in riva al molo a trovarmi e sempre volentieri ci siamo ritrovati. Qualche altra volta sono stato al Cartellone o alla Talpa a salutarlo e mi sono sempre compiaciuto nel rivederlo. Il suo animo gentile ed intransigente insieme, non tollerava facilmente la disattenzione spesso presente nei gesti di tanti. Me ne parlava. Sperava sempre qualcuno capisse senza il bisogno di farselo dire.
 I suoi pensieri sul destino dell’esistenza e la rassegnazione della perdita mi sono stati di insegnamento, quanto la sua capacità di innescare riflessioni di unione e di amore.

 

ti invio due parole da Parigi dove resterò 4 giorni. Mi ha fatto molto piacere rivederti a Sampieri, anche se eri molto triste. … Tuttavia voglio dirti che i morti sono come una grande nave che naviga nell’eternità, e che noi vivi siamo su una piccola zattera. Prima o poi i morti ci scopriranno e ci porteranno con loro, per sempre. Ma fin quando siamo sulla zattera, cerchiamo di non perderci di vista. È la nostra salvezza nella vita.

 

Anni addietro, Franco – un comune amico con trascorsi siracusani – organizzò un incontro nella casa di campagna di Gerrantini. Tante volte avevo rifiutato visite conviviali, ma sapevo che con loro due niente poteva essere banale o del disgusto consueto che intorno vedo e aborro. Quella è stata l’ultima volta che siamo stati insieme. In quel comodo divano e in posa elegante, ogni sua parola aveva un alito sublime. Erano parole fiatate e non pronunciate con la forza della ragione, quando sospinte dalla carnosità dell’anima. Parlammo di tanti argomenti. Selezionati coscientemente per metterli a comune del nostro conoscerci e condividere. Frequenti i suoi vasti riferimenti alla cultura internazionale e alle sue esperienze vissute. Il suo ritorno è servito per trovare riferimento alla su anima malinconica, dopo tanto migrare. Per ritrovare gli affetti lasciati e quelli che non trovò più.

 

Mi dà gioia sentirti più sereno e più disposto a guardare le tue cose. Immagino quanto sia terribile la quotidianità, con tutte le immagini di una vita, quando manca una persona importante. Ancora oggi … cerco di non guardare certi luoghi dove mia madre si muoveva nella luce che si portava dietro. Luce per questo figlio siracusano – io – che amava pazzamente e che per un gioco del destino – Dio – se ne era andato lontano. Ma la tenerezza di questi pensieri mi aiuta a vederla dappertutto. E a non avere paura.

 

Abbiamo condiviso entusiasmi e confronti appassionati nei momenti di flesso e difficili per la cultura locale sciclitana. Lui è sempre stato coinvolto, forse giustamente, riservandosi dopo di lamentare quello che io rifiutavo per principio.
Ora … saperlo assente: mi intristisce. L’impossibilità nel decidere se andarlo a trovare: mi angoscia. Ma so – seguendo il suo desiderio – che lo rincontrerò. Quell’appuntamento me lo ha dato lui dieci anni addietro. Ogni volta lo penserò in quel terrazzo, come a chiusura di una delle lettere di conforto, dopo il mio grave lutto, lui stesso prefigurava.
Saremo sempre i soliti amici, ci terremo stretti come prima, come sempre.

 

Vorrei, … amico carissimo, che la prossima volta ci trovassimo tutti, i vivi e i morti, sul quel terrazzo. E che guardando il mare, parlassimo di loro, di questi dolci scomparsi, di queste anime gentili che se ne sono andate in punta di piedi. Non posso onorare Lina in altra maniera, e so che le farà piacere saperci insieme di fronte al suo mare.

 

Penso a quei giorni e a quella vita di un tempo, e il ricordo si fa ancora vita.
Possa essere la terra lieve per Ciccio.

Ellj Nolbia