Cultura
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25/02/2010 13:01

Kabul-Scicli, via Milano: per Maria Grazia Cutuli

Un articolo della giornalista Laura Silvia Battaglia

di Laura Silvia Battaglia

Scicli – Ancora quattro ore di volo e tre ore e mezzo di  fuso orario in avanti. Ci vuole tempo, dall’Italia, per arrivare a  Kabul.
Da Milano a Scicli il salto è solo un po’ più breve, meno  esotico, meno turbolento. E’ comunque un salto, un balzo sul meridiano  più basso. Qui, in questo Sud di pietra bianca, antica,  imperscrutabile, qui, tra queste pietre delle cave, cugine delle gole  innevate nella strada tra Peshawar e Kabul, proprio qui, anche qui, si  aprono piccoli abissi, qualche segreto, molti sorrisi. Arrivare qui per  parlare di Maria Grazia Cutuli, la giornalista del Corriere della Sera  uccisa il 19 novembre del 2001 in Afghanistan, poteva equivalere a  gettare un grido nel deserto. E invece no. I siciliani – e Maria Grazia era siciliana, e siciliani sono molti magistrati e molti  giornalisti che si battono ogni giorno per amore di verità, quasi  sempre lasciandoci le penne – sanno cosa vuol dire vivere per morire:
morire di nostalgia per la propria terra, di indignazione per lo scacco  cui è sottoposta, di giustizia per estirparne il suo contrario. Lo  sanno da adulti, lo sanno da bambini. Magari non amano sentirselo dire, ma lo sanno.
Quando li abbiamo incontrati – con il consueto pudore, con quell’atteggiamento muto che prendeva anche Sciascia quando lo  prendeva, mentre pensava, prima che riuscisse a parlare e dire quelle
verità che scuotevano anche le idee più immobili -, quando li abbiamo  incontrati, dicevamo, ce lo hanno detto anche a noi. Silenziosi, i  duecento e più ragazzi delle scuole superiori di Scicli, senza parole,  dopo le immagini delle donne violate, dei bimbi soldato, dei kmer rossi e dei talebani che abbiamo mostrato loro senza filtro, hanno parlato  così. Perché molte di quelle violenze – più mute ancora, più sottili, più silenti – sono anche le loro. Non le conoscono, ma le portano –  subìte – nel dna siciliano; dunque, le riconoscono.
A loro abbiamo  pensato fosse giusto consegnare i segreti di chi, per mestiere, queste  violenze le deve raccontare. Non per illudere i giovani di Scicli che  diventare giornalisti sia un percorso tutto rose e fiori né per  dimostrar loro che uno scoop vale sempre una vita, ma, al contrario,  per stimolare dubbi e perplessità sull’informazione e sul modo di farla  e di fruirla oggi. “Come mai quando guardo la tv ho l’impressione che i  telegiornali siano tutti uguali?”, “Vorrei molto più giornalismo  d’inchiesta: perché voi giornalisti non ne fate più?”, “Cosa significa  essere inviati di guerra?”, “Come si può raccontare la storia di un  bambino, quando è una storia difficile, drammatica?”: queste domande  sono arrivate alla fine dell’incontro, accompagnate da sorrisi timidi,  gesti riservati, strette di mano vigorose. E c’era anche qualche  sospiro di sollievo, tra questi ragazzi, quando scoprivano che la
giornalista che avevano davanti si fa le stesse domande ogni giorno e  che, non per tutte le domande, ha sempre una risposta sicura.
Se c’è  una lezione, dunque, è quella del dubbio e della ricerca. Cercare una  verità e provare a raccontarla onestamente: questo è il dovere di ogni  giornalista, dovere che Maria Grazia Cutuli conosceva bene e a cui ha  cercato di dare seguito nella sua professione e nel suo lavoro, fino
alla sua morte. Lo abbiamo ripetuto anche agli adulti dell’associazione  Miros, uno zoccolo duro di sciclitani innamorati della loro terra,  delle loro case, del loro mare: quel mare che a Portopalo ha restituito  molte vite straniere senza un nome, senza un volto, tra l’indifferenza  dei giorni che scorrono tutti uguali e che la pervicacia di un  giornalista (Giuseppe Maria Bellu) ha restituito alla storia e alla  giustizia. Un mare bello, come belle sono queste montagne e queste  case, che, nonostante tutto, continuano a stregare gli stranieri che le  scelgono come seconde patrie. Guardate Axel, francese innamorato della  Sicilia. Lo abbiamo incontrato a Scicli, come ai tempi del Grand Tour,  quando ti poteva capitare di imbatterti in gentiluomini amanti del  bello. Axel e il suo socio hanno trasformato la giudecca del paese in  un luogo di bellezza, in un resort per pochi intimi. Lo chiamano  palazzo Hedone ed è l’altra faccia della medaglia. Nel cuore del  vecchio degrado di Scicli, nel simbolo della segregazione ebraica. Qui,  Axel, davanti a una cascata d’acqua, nel cuore della valle del Barocco,  ci chiede: “Questa è la Sicilia vera: come puoi startene lontana da
qui?”. La risposta c’è, nel vento gelido che spezza i sorrisi.

                                  Laura Silvia Battaglia

 

Foto di Gianni Mania