Attualità
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27/01/2011 23:26

La morte di Paolo Cannì nel dialogo tra un alunno e un insegnante

"Incontro Rosario il mio alunno di quinto anno"

di Mario Tamburino

Sit in per Paolo Cannì
Sit in per Paolo Cannì

Ragusa – La foto sorridente del ragazzo di trentuno anni, padre di un bimbo di quattro, che si è tolto la vita dopo essere stato licenziato è appiccicata sul vetro della porta automatica che funge da ingresso al centro commerciale. 
Sotto all’immagine stampata su di un foglio di carta attaccato forse dai colleghi di lavoro solo due parole: “Ciao” e poi il nome del giovane suicida.
Proprio lì, accanto ad un gruppetto di curiosi che si accampano attorno a quel viso, incontro Rosario il mio alunno di quinto anno. 
Un saluto cordiale per l’incontro imprevisto e un’inevitabile battuta indicando l’immagine che desta il brusio di commento dei passanti. “Professore, certo che per fare una cosa del genere ci vuole coraggio”. “Coraggio? – ribatto, preso un po’ alla sprovvista, mentre il termine pronunciato dal mio alunno si associa, nella mia mente, alle espressioni quasi di ammirazione seguite, da parte di tanti, al suicidio del regista Mario Monicelli – Ci vuole coraggio per vivere, ci vuole coraggio ad affrontare la vita di ogni giorno con tutti i suoi problemi, non per fuggire”. Devo andare via. Ci vediamo a scuola. 
Tra le mura familiari del mio Istituto sono subito ripreso dal vortice delle cose consuete: interrogazioni e scrutini da preparare, numeri e scartoffie. Ho un’ora libera. Impegnato in una sortita di alleggerimento dall’assedio dell’insegnante in classe è ancora Rosario che mi viene incontro mentre leggiucchio qualcosa in sala insegnanti. “Sa professore – mi confida con l’aria di chi ci pensa su già da un po’ – le cose che ci diciamo sembrano insignificanti e invece poi uno scopre che non è così”. E continua: “Ieri sera guardavo il telegiornale con mio padre e ho commentato la notizia della malattia che ha colpito di nuovo Steve Jobs”. 
Subito mi torna alla memoria la lezione d’inglese durante la quale avevo fatto studiare ai miei alunni il discorso tenuto dal fondatore di Apple ai neolaureati della Stanford University, nel 2005. “Ho raccontato a mio padre del tumore al pancreas di Jobs e dell’intervento subito nel 2004. Mio papà mi guarda stupito e fa: ‘Chi te le dice queste cose?'”.
Il nostro dialogo ritorna fatalmente alla discussione interrotta davanti all’ingresso del centro commerciale. “E adesso che il male ritorna, che si fa?” gli chiedo. In un contesto culturale in cui si sta sempre più diffondendo e radicando il convincimento che un uomo e la sua vita valgono finché ‘producono’ o ‘funzionano’ o non sono di peso a nessuno, il giudizio del mio alunno mi sembra decisivo. “Si continua a lottare” risponde Saro. “É importante – spiega – il modo in cui un padre affronta le difficoltà della vita. Se davanti agli ostacoli dicesse che è giusto farla finita, anche il figlio, un giorno, potrebbe essere spinto a fare lo stesso di fronte ai suoi problemi”.
Quale posizione umana testimoniamo di fronte all’esistenza? A scuola, in famiglia nel contesto sociale e politico che, in un modo o nell’altro, determiniamo? Anche questo attiene alla questione morale e riguarda solo noi. 
La risposta che di fatto viviamo dentro circostanze apparentemente insignificanti di ogni giorno, possono far morire o esaltare il desiderio di vivere di chi ci sta a guardare.