Cultura
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08/01/2011 19:35

La Santogna

Presenza inquieta e inquietante, viveva là, in quella casa strana, appartata

di Un Uomo Libero

Chiafura, Scicli
Chiafura, Scicli

Scicli – La sua grotta era isolata, distinta. Presentava varie camere in fila scavate sotto un terrapieno e si apriva come una casa sospesa sulla valle sottostante.

Eravamo sfollati a Chiafura. Soldati dell’Asse avevano montato in cima alla torre del Castellaccio una contraerea. Aspettavamo che il tempo provvisorio della guerra finisse per fare posto a una pace che assicurasse una vita più organizzata e più comoda.

Mio padre e mio zio avevano affittato due grotte proprio sotto il duomo di San Matteo, nel cuore dell’antica necropoli, e là avevano sistemato le famiglie sperando nel tanto atteso sbarco degli Alleati. Tutta la città si era riappropriata del vetusto sito in cerca di rifugi sicuri. Anche la borghesia si era rintanata nella rocca come ai tempi dei pirati saraceni quando si temeva uno sbarco dal mare. Le torri, però, non c’erano più e le porte erano state demolite o incorporate in antiche fabbriche.

La scuola era stata chiusa con molto anticipo.

La rocca pullulava di bambini, indigeni e nuovi arrivati. Piccole bande che sciamavano di giorno dentro l’interno sconsacrato e scoperchiato del duomo a caccia di grilli e di lucertole.

I profumi intensi di maggio lasciavano appena passare gli ultimi effluvi trasportati dalle brezze leggere che dal mare si spingevano fin dentro le valli.

La Santogna, presenza inquieta e inquietante, viveva là, in quella casa strana, appartata, severamente proibita alla nostra ingenua curiosità di fanciulli.

Nessuno di noi la aveva vista. Si raccontavano di lei storie maliziose e terribili che la fantasia, animata da una concupiscenza infantile e acerba, esagerava nelle lunghe veglie notturne. Tutti eravamo comunque d’accordo che doveva trattarsi di una mangiatrice d’uomini, di una strega simile a quelle delle favole, di un essere pericoloso e infido anche perché i grandi la temevano più che il demonio stesso.

La sua casa odorava d’incenso. Un profumo forte che inebriava i sensi e ricordava a noi ragazzini i magi del presepe, un oriente lontano fatto di fondali dipinti, di cammelli di terracotta, di stelle comete, di muschio, di mandarini e di arance, di mirtilli, di palmette di mandorla che sapevano di spezie.

Un viavai strano disturbava i nostri giochi e l’aria furtiva, mal celata, che figure anonime difficilmente riuscivano a dissimulare, riempiva di curiosità e di mistero i nostri occhi.

In un caldo pomeriggio di maggio due figure femminili avvolte in uno scialle nero si avviarono per il viottolo proibito e scomparvero subito dentro quell’antro di sibilla. Non riuscii a vedere il loro volto perché quasi interamente coperto dallo scialle. Le seguii, però, trepidante, con lo sguardo. Con la preoccupazione di chi non vuole esser visto, lasciarono, nella fretta,  la porta della Santogna socchiusa su un lungo cono d’ombra che mi lasciò intravvedere parte dell’interno del primo ambiente. In un arcosolio ardevano diversi lumini di differente grandezza davanti a un’effigie sacra che subito mi sembrò un angelo. Sul pavimento di terra battuta coltri tessute a telaio sostituivano egregiamente dei tappeti. Non c’erano sedie ma solo panche rudimentali sulle quali le due donne si sedettero nell’attesa che la Santogna comparisse. Un raggio di luce, ubriaco di sole, filtrava da un’apertura alla quale era stata applicata un’imposta che ora era accostata. Le donne scoprirono il viso prima e poi i vestiti, gonne lunghe che non avevano saputo proteggere a lungo un imbarazzante segreto.

Nascosto dietro la porta, osservavo con il gusto morboso di chi spia dal buco della serratura.

La maga venne e per la prima volta la vidi. Una donna corpulenta e grassa, dalla pelle molto chiara forse perché molto incipriata. Aveva mani piene di anelli d’oro e  le agitava nell’aria con la foga violenta di un pugile.

Parlarono a lungo, lei e le due donne, senza che io potessi distinguere chiaramente ogni parola. Un discorso concitato che mi sembrò quasi un alterco, una lite, parole grosse di cui non afferravo esattamente il senso.

La Santogna si allontanò per un istante verso le stanze più nascoste della grotta e ricomparve con un fascio di lire di carta che le sue ospiti rifiutarono con sdegno. La maga di nuovo si allontanò e non riapparve più. Non capivo che cosa le altre due stessero aspettando o volessero da lei. A un tratto la Santogna le chiamò e loro la cercarono laddove lei era scomparsa.

Entrai a spiare, sicuro di non essere scoperto e consapevole del rimprovero e delle sculacciate che dopo mi sarei meritati.

La signora più giovane cominciò a spogliarsi fino quasi a restare nuda. Mai avevo visto una donna senza vestiti addosso. La Santogna la fece adagiare su un grande letto e fra le gambe le infilò una piccola sedia. Si parò davanti a lei ed io riuscivo a vedere solo la sua sagoma imponente muoversi, dimenarsi fra giaculatorie e bestemmie, fra invocazioni e parolacce, fra grida soffocate che somigliavano a veri e propri rantoli. Le mani della Santogna, imbrattate di sangue, improvvisamente lasciarono la donna per tuffarsi dentro una tinozza dove la maga aveva posto dell’acqua. Non resistetti all’orrore di quella scena cruenta, inaspettata e fuggii.

Tremavo, ero madido di sudore. La febbre mi colse nella sera senza che l’ingenuità del ragazzino si sapesse spiegare il perché di quel gesto crudele e inutile. Deliravo.

Mia madre capì. Lasciò che interiorizzassi la mia pena. Appena la febbre scomparve, mi accompagnò da zia Vanna per farmi “ciarmári u scantu”, un esorcismo che avrebbe dovuto liberarmi  dalla paura del demonio.

Dopo alcune settimane, era già luglio, dalla costa dirimpettaia, provenienti da Modica, vedemmo luccicare delle macchine strane. Raggiunsero il centro cittadino senza neppure rispettare i numerosi tornanti della strada che si avviluppava intorno alla collina. Erano cingolati. Si precipitavano a picco come se i muri fossero fatti di ricotta e, loro, i soldati che li guidavano, avessero tanta fretta di arrivare. Mio zio prese il binocolo e con aria salomonica pronunciò finalmente la parola magica che da mesi volevamo sentire: -Gli Alleati!-

Sapemmo così di essere stati invasi.

Il paese ritornò alla normalità e alla sua quiete, anche se già l’estate era alle porte e bisognava raccogliere il poco che la campagna in quel momento offriva.

Abbandonammo la grotta e ritornammo alla nostra casa.

Della Santogna non rimase altra traccia nella mia memoria che l’orrore delle sue mani insanguinate.

Molti anni più tardi ritornai a battere i sentieri di quella lunga primavera e, stranamente, non ritrovai più la grotta della maga. Era stata sventrata e trasformata in canile. Un vecchio aveva preso in custodia la struttura. Al di là di una robusta rete metallica che serviva di recinzione mi squadrò dall’alto in basso con un’aria interrogativa e contrariata, appena mi vide curiosare.

-Salve!- Lo salutai.

Mi lanciò un’altra occhiata sospettosa e severa.

-Avevo voglia di fare due passi. – Lo rassicurai.-  Sono venuto a rivedere i luoghi della mia fanciullezza. Durante la guerra, i miei, erano venuti ad abitare una grotta quassù.-

Il vecchio restò indifferente alle mie spiegazioni.

-Voi siete di queste parti?- Chiesi sperando di suscitare in lui un certo interesse.

-Si.- Rispose laconico.

-La nostra grotta era proprio quella, l’ultima della fila. – E gliela indicai col dito.

Il vecchio continuò a badare ai cani.

-Qui, però, non ricordo che ci fosse un canile. – Aggiunsi parole come esche per farlo abboccare al mio amo.

-No, infatti. – Finalmente rispose. – Il canile è stato realizzato negli anni Sessanta.

– E prima?- Domandai.

Il vecchio si avvicinò per osservarmi meglio.

-Prima c’era una grotta che sicuramente doveva essere la casa del diavolo.- Sussurrò con una voce che mi mise paura.

Finsi sorpresa.

-Il diavolo?- Ribattei sorridendo. – Il diavolo non esiste!-

-No. Esiste, esiste, egregio amico!- Esclamò il vecchio con molta convinzione. – Io l’ho conosciuto. Aveva le sembianze di una donna.-

– Volete dire la Santogna?- Lo incalzai.

Il vecchio mi considerò ora con più interesse.

-Mia moglie è morta per colpa sua. L’ha fatta abortire mentre io ero disperso. La megera circuiva le donne sole e le faceva sedurre da un cugino che era anche il suo amante. Quando erano incinte, si offriva poi di aiutarle proponendo loro di cedere in cambio il bambino. Per preservare il loro onore, diceva lei.  Per il suo scellerato patto con il diavolo, dico io. Quanti bambini, con questo sistema, fece nascere e vendette! E le donne che non stavano ai patti le faceva abortire spesso macellandole. Lei , mia moglie, è stata purtroppo fra queste.-

Col dorso della mano si asciugò delle lacrime e osservò severo i miei occhi.

-Come mai nessuno l’ha denunciata?- Gli chiesi sorpreso e tremante, finalmente consapevole del mio segreto infantile.

Il vecchio mi lanciò un’occhiata piena di rimprovero.

-Nessuna di quelle donne l’avrebbe fatto e, in effetti, nessuna lo fece perché l’ignoranza era tanta in quel tempo. E poi la guerra, la confusione, la paura. Quando ritornai dalla prigionia e seppi la verità io volevo trovarla, la Santogna. Non solo per vendicare la morte della mia donna ma per vendicarle tutte. Purtroppo non c’era più. Si era come volatilizzata, aveva cambiato aria e pelle. Qualcuno mi sussurrò all’orecchio che si era trasferita in un piccolo centro della Sicilia, altri invece, più informati, mi dissero che era partita per il continente, al seguito delle truppe alleate. Spero solo che il diavolo l’abbia ricompensata col suo inferno.-

Lo salutai turbato. Quella verità mi aveva scosso.

Alla fine del vicolo mi voltai come spinto da una forza sovrumana, evocatrice, diabolica.

Il canile era scomparso e la grotta era intatta come ai tempi della mia infanzia. Dalla porta socchiusa lei, la Santogna, dai capelli di Medusa, mi apostrofava con un ghigno satanico e beffardo.

-Perché mi guardi così? – Mi gridava da lontano. –Ho riempito di angeli il cielo. Ho trasformato donne sterili in madri generose. Ho ricucito verginità lacerate. Ho riparato onori compromessi. Chi più di me merita il paradiso? Chi più di me è santa?-

Mi mostrava delle mani paffute e bianche dalle unghie di rapace lunghe e ricurve, laccate di un rosso vivo. Rosso sangue.


 

 

 

Nella foto, dell’archivio Pietro Sudano, Chiafurari