Uomini e ragazzi, a piedi nudi su un palco di pietra, pestavano in un allegro baccanale gli acini profumati e zuccherosi
di Un Uomo Libero

L’estate era di solito spazzata da un improvviso acquazzone settembrino che sorprendeva i vendemmiatori.
Ricordo ancora gli autunni della mia prima infanzia e la vendemmia con il suo carico di preziosi e luccicanti diamanti che presto si sarebbero trasformati in un mosto acido, acre. Un palmento antico, seminterrato, stretto tra l’argine del torrente Santa Maria La Nova e le antiche fabbriche del convento del Carmine.
Uomini e ragazzi, a piedi nudi su un palco di pietra, pestavano in un allegro baccanale gli acini profumati e zuccherosi, assaliti da nugoli di mosche e di vespe. Gridavano una canzone nell’aria mentre un succo sanguigno scendeva per arterie segrete nella fossa del mosto, purificato da filtri di latta. Un odore pungente mozzava il mio respiro.
Nel grande baglio della masseria mia madre e altre donne da un pezzo avevano lavato le botti con acqua di mare. Le avevano rotolate tante volte sotto il sole mentre un decotto di erbe aromatiche e alloro, di foglie di mandarino, di arancio, di limone, di mirtillo, di bergamotto, di granato bolliva in un immenso paiolo.
Erano profumi che evaporavano nell’aria e si confondevano con gli odori intensi dello stallatico sparso nei neri solchi fumanti dei terreni già arati, dell’erba novella, della prima borragine, dell’olio non ancora spremuto dentro grosse olive verdi e nere che aspettavano di essere scrollate. Le donne riempivano poi i contenitori del magico infuso e li lasciavano “stufare”, con l’aiuto di un composto a base di zolfo, per un tempo sotto la luna. Nello spazio acciottolato i loro volumi panciuti si trasformavano in figure antropomorfe, caricate dall’ombra della notte di una suggestiva aura di mistero. Che festa vedere giungere la carovana di carri con gli otri macchiati di liquido bruno! Il baglio all’improvviso si animava. Le botti si svuotavano ora dell’infuso e si portavano nel grande casolare. S’intronizzavano sopra zoccoli di pietra calcarea e finalmente il prezioso carico vi si travasava per la gioia di mio padre e dei vendemmiatori. Un otre a parte conteneva il mosto da addolcire con pietra “morta” di tenero calcare. Si facevano con esso i “cuddurèddi”(1) con gli squisiti “cappèdda ri parrìnu”, mostarda da mangiare fresca o da seccare al sole per consumarla in inverno, quando le notti si allungano a dismisura tra un racconto e l’altro, vicino al focolare. Parte del mosto si faceva ridurre a fuoco vivo di un terzo per innalzare il grado alcolico del vino nuovo. Si riversava per questo nelle botti. Un’altra piccola quantità si lasciava invece addensare ancora fino a quando si sarebbe trasformato in uno sciroppo profumato, a prova di cucchiaio, con il quale, a San Martino, si sarebbero confezionati gli incredibili “mustazzòla”(3) nella festa di addio all’autunno. Il Vino Cotto, questo è il suo nome, si provava poi sul primo pane caldo per sentire il profumo mieloso del suo fragrante respiro. Dopo la raccolta delle olive e la loro frangitura per ricavarne l’olio, il paese ritornava a rianimarsi per commemorare i defunti. Tra le foglie ingiallite, i cipressi del cimitero acquistavano un’aria solenne, severa, additavano il cielo. Il camposanto dei poveri non aveva marmi ma solo mucchietti di terra contraddistinti da una piccola piastrella di ceramica azzurra nella quale era dipinto un numero romano. Si trovava dietro al monumentale viale delle cappelle e, in esso, la morte si faceva anonima, ordinaria. Qua e là qualche lapide di calcare tenero, una scritta sbiadita, una croce mutilata dal vento come forse quella vita strappata prematuramente agli affetti. Pochi fiori, spesso di carta colorata, rendevano più allegro il prato incolto. Ricordo mio padre affannarsi sulla tomba della madre per sistemare una piccola e rudimentale lampada a olio schermata con cladodi di fichi d’India perché il vento non spegnesse la sua debole luce. Molti fabbricavano ripari di canna, qualcuno poneva dei piccoli lumi a petrolio. A Ognissanti, la necropoli si animava di luci come per un festino di zombi e, nell’aria tiepida della sera, non un rumore profanava la quiete di quell’impalpabile Ade. La vigilia della festa dei morti sognavo angeli con sembianze umane, prese a prestito dai vecchi dagherrotipi ben allineati sull’antico comò dalla mano pietosa di mia madre davanti a una lampada a olio e a un pezzo di pane. Non avevo paura. Aspettavo quasi vegliando il silenzioso passaggio delle ombre care che venivano a visitare come la mitica Proserpina il nostro tempo di uomini vivi e speravo con ansia nei doni dispensati dalle loro mani leggere, lasciati nel canestrino coperto con un panno sul vecchio davanzale. Erano povere cose che arrivavano da un Aldilà lontano e misterioso e per questo gradite e nuove. Una rossa melagrana, un pugno di fichi secchi, una forma di elastica mostarda, un’altra piccola forma di profumata cotognata, un fruttino di pasta reale che mi anticipava i colori e i profumi del paradiso. Mia madre faceva il pane, la vigilia, a bella posta. Come in tutte le antiche famiglie, anche nella mia si confezionavano le ‘”armisanti”. Erano pupazzetti di pasta lievitata che riproducevano il busto reliquario di “Sammugghirmùzzu”, del Santo Patrono San Guglielmo, il più venerabile dei defunti sciclitani.
Quanto grande era stata la fede nelle antiche tradizioni tramandateci dai Padri!
Le “armisanti” si cuocevano in forno insieme all’altro pane ed erano destinate ai poveri più poveri di noi che in quest’occasione frequentavano la mia casa. Vecchine dallo sguardo svanito, dai capelli arruffati e bianchi. Vestivano con abiti zeppi di rammendi, portati però con la dignità di chi possiede solo i suoi giorni. I panetti scivolavano dentro una vuota saccoccia tra un requiem e un grazie che davvero sapevano pacificare l’anima. Chi poteva permetterselo, elargiva ricche elemosine a pie questuanti che recitavano sulle sepolture delle antiche preghiere di suffragio. Tra orazioni, lamenti e lacrime si svuotava così il purgatorio inventato dagli uomini. In quel giudizio sospeso e trascendente, i ricchi erano comunque e sempre avvantaggiati, anche dopo la morte. Il nuovo cimitero di contrada Mendolilli risentì, all’impianto, negli ultimissimi anni dell’Ottocento, di un modernismo borghese che volle riprodurre negli splendidi pantheon i fasti della ricchezza cittadina aristocratica e decadente. Ma non durò molto questa moda. Presto una nuova classe di ricchi, parvenu ed emergente, riempì di brutture e di cemento la piccola cittadella del silenzio, dove l’arte aveva saputo fermare nella pietra il volo degli angeli. Rimangono i pioppi centenari e altissimi che additano al visitante sempre il cielo. Dal magnifico viale delle cappelle la città duetta tuttora con gli uomini del suo passato e si apre in un abbraccio commovente tra antiche siepi di bosso e palme.
Un Uomo Libero
(1) pasta cotta nel mosto già addolcito
(2) cappelletti ripieni di una farcia di mandorle abbrustolite e tritate, zucchero e cannella
(3) dolci molto elaborati a base di Vino Cotto, farciti con un impasto di mandorle tritate, cannella, miele e aromatizzato con buccia di limone grattugiata
© Riproduzione riservata