Le "domus de janas"
di Lucia Lo Presti

Monterosso Almo – Se vi capita di fare una passeggiata nell’area naturalistica attrezzata del Parco di Calaforno, che si stende a cavallo tra Giarratana e Monterosso, se avete la fortuna di trovare lì qualcuno che vi fornisca le giuste indicazioni, e se, per finire, non soffrite di claustrofobia, e avete ricordato di munirvi di una torcia, allora potrete fare un’esperienza indimenticabile. Individuata una piccola apertura che si nota appena tra la vegetazione che ricopre il declivio della cava scavata dall’attività erosiva del torrente Manna, vi potrete immergere in un mondo ipogeico che costituisce un unicum nel panorama archeologico del Mediterraneo: una sequenza di 35 camerette circolari, disposte lungo un percorso irregolare di circa cento metri.
Un vestibolo lungo dieci metri, non più accessibile, ne costituiva l’ingresso principale, oggi sostituito dal piccolo imbocco attiguo.
Tutte le camerette hanno una pianta irregolarmente circolare, con un diametro che si aggira attorno ai tre metri, ma bisogna camminare acquattati se non anche carponi, dal momento che l’altezza dei vari ambienti che si susseguono è di poco superiore a un metro. Attraverso passaggi che si aprono nel diaframma di pietra che li separa, si arriva ad una sala polilobata, di dimensioni maggiori rispetto alle altre, per poi proseguire fino all’ultimo ambiente, situato nell’area più settentrionale.
Appare evidente che si tratta di un manufatto e non di cavità naturali. A quando datarlo? Quasi tutti gli archeologi propendono per una realizzazione in epoca preistorica, attorno alla seconda metà del terzo millennio a. C. (qualcuno lo colloca più indietro, nel Neolitico), anche se vari ambienti, tra cui quello polilobato, presentano, chiari, i segni di rimaneggiamenti da datare a epoche successive. A diverse facies archeologiche appartiene anche la ceramica rinvenuta al suo interno.
Si tratta di alcuni frammenti appartenenti alla tarda età del Rame e precisamente alla cultura di Malpasso-Piano Quartara, ai quali se ne aggiungono altri che risalgono sicuramente all’Età del Bronzo. Una statuetta raffigurante la divinità di Bes-Ptath e alcuni frammenti di ceramica a vernice nera risalenti al V-IV secolo a.C. stanno a testimoniare una frequentazione dell’ipogeo ancora in età greca, quando dovette con ogni probabilità essere pertinenza di Casmene, subcolonia di Siracusa, mentre la sepoltura a loculo realizzata nella parete orientale della grande sala polilobata, per accogliere un bambino, rende evidente l’uso degli ambienti ipogeici ancora in età tardoantica (III-V secolo d.C.) e altomedievale (VI-IX secolo d.C.).
Quale la funzione di tale escavazione? Alcune sue caratteristiche ricordano le tombe sarde del tipo “domus de janas” e gli ipogei funerari della preistoria maltese, il che rende plausibile pensare che fosse un luogo destinato ad ospitare delle sepolture. Solo il rinvenimento di portelli in pietra usati per chiudere le varie camerette potrebbe confermare pienamente questa ipotesi. Indubbio resta comunque il legame culturale che avvicinò la Sicilia a Malta in epoca preistorica. Nelle fasi successive a quelle dell’impianto originario, è possibile che l’ipogeo fosse utilizzato come santuario in cui erano venerate divinità minori, come Bes, funzione resa evidente soprattutto dal rinvenimento della statuetta del dio egiziano.
Lo scorso 29 luglio l’ipogeo è stato oggetto di un sopralluogo, che ha visto la presenza del soprintendente Alessandro Ferrara accanto al sindaco di Giarratana, Giuseppe Lia, al Dirigente del Dipartimento Foreste Antonino De Marco, a Lombardo, del Dipartimento Foreste, e all’archeologo Saverio Scerra della Soprintendenza di Ragusa, per valutare possibili interventi finalizzati a consentire la fruizione a fini turistici del sito. La sinergia tra i diversi Enti consentirà in tempi brevi – è stato assicurato – di liberare e rendere più praticabile l’ingresso del sito preistorico, inserendo così la visita dell’ipogeo all’interno degli incantevoli percorsi naturalisti del Parco di Calaforno.
«…allorquando mio nonno – classe 1876 – iniziava a raccontare della raccolta della neve sulle pendici dell’Arcibessi, del faticoso stipaggio nel ventre della capiente neviera di San Giuseppe e della fila di carri, nell’estate successiva, per trasportarla – ma ora era solida e fumante massa ghiacciata – nei paesi della marina, Vittoria o Gela, adesso non ricordo più…”. Così si apre una delle poche opere – L’industria della neve.
Neviere degli Iblei, autore Giuseppe Cultrera – scritte per fissare il ricordo di un’attività che fino a un passato non molto lontano contribuì a produrre ricchezza in tutta l’area degli Iblei. Circa venticinque le neviere ancora in attività a Buccheri, nei pressi di Monte Lauro, agli inizi del ventesimo secolo; ma anche a Palazzolo Acreide, Buscemi, Sortino e Vizzini non mancavano costruzioni adibite alla conservazione della neve, come pure a Giarratana e a Chiaramonte Gulfi, nell’altopiano attorno all’Arcibessi. Spesso celate ai nostri occhi dal rialzamento del terreno, dalla disgregazione della struttura o dal riuso come cisterne, sono oggi silenti testimoni di un’attività che molti non immaginano neanche sia potuta esistere in un’isola che lo stereotipo comune vuole arsa dal sole. Antri scavati nella viva pietra, immersi per oltre quattro quinti nel grembo della terra, questi manufatti ne emergevano solo per la parte sommitale. La pietra cavata per realizzare la porzione ipogeica veniva impiegata per la costruzione della copertura a volta, dei cantonali, del prospetto e spesso anche del muro a secco che delimitava l’area di lavoro circostante: un surplus di valore, come si evince da alcuni documenti, “potendosi detti vignali con gran convenienza gabellare, come s’à sperimentato con altre terre”. E infatti le neviere erano appaltate dai proprietari – nobili ed ecclesiastici – a veri e propri impresari, tenuti al pagamento di una gabella.
Ancora negli anni ’30, quando la materia prima, la neve, si spandeva copiosa sul pianoro dell’Arcibessi, di Corulla, di Serra di Burgio, del Santissimo, un banditore girava per le vie di Chiaramonte invitando quanti volessero raggranellare qualche soldo a recarsi sull’altipiano soprastante per la raccolta della neve.
Giunti sul posto, ci si industriava a raccogliere più neve possibile, comprimendola a palla e provvedendo poi a trasportarla, a spalla o infilzata in un robusto bastone, fino allo spiazzo antistante alla neviera, dove veniva depositata, in attesa di esservi introdotta attraverso apposite botole. L’operazione successiva consisteva nel comprimere con grosse mazze di legno la neve fino a renderla compatta, alternandola a strati di paglia.
Non sempre era sufficiente un inverno per riempire una neviera, soprattutto se era particolarmente capiente, come la Grotta Grande di Buccheri o quella che i chiaramontani chiamavano la lupa, un insaziabile ventre che vedeva impiegati fino a cinquecento raccoglitori a riempire la sua famelica bocca. Né bastava poi l’estate successiva a svuotarla.
Entravano allora in gioco gli operai che sezionavano in grossi blocchi l’enorme massa di ghiaccio, e i vardunara, i conduttori di bestie da soma, che con lunghe carovane di muli ed asini provvedevano al trasporto dei blocchi ghiacciati avvolti in paglia e sacchi di iuta. Arrivavano di sera nelle neviere e aspettavano che si facesse notte per ripartire, in modo da viaggiare col fresco e giungere a destinazione sul far del giorno. Da metà Ottocento il trasporto a basto fu soppiantato dai nuovi mezzi di trasporto, i carretti, che ora si spostavano sulla moderna rotabile costruita per collegare Chiaramonte con Comiso e Ragusa.
Diversi i documenti che gettano luce su questo peculiare aspetto della vita sociale, economica e culturale del territorio ibleo. Gli atti del Decurionato di Monterosso Almo ci informano del fatto che la neve si vendeva nella piazza principale del paese. A Ragusa Ibla si sa che esistevano depositi di ghiaccio e si conosce addirittura il nome dell’imprenditore chiaramontano, Vito Mulè Mallo, che si impegnò nel 1697 a rifornire Ragusa Superiore, la nuova città sorta dopo il terremoto del ’93, della quantità di neve necessaria “pro uso et commodo” di ogni cittadino. Commercianti trapanesi andavano a vendere la neve perfino a Tunisi, dove la trasportavano su navi a vela, e anche l’isola di Malta ne veniva rifornita. Due gli usi primari: in campo medico, nella cosiddetta “cura di lu friddu”, attestata in Sicilia sin dal Medioevo; in campo alimentare, nel raffreddamento e nella conservazione di alimenti deperibili come il pesce.
Dal Settecento, si diffuse, tra notabili e aristocratici, il consumo di sorbetti e granite, inventati già qualche secolo addietro dagli arabi. Come non rendere unico e indimenticabile uno sposalizio, un battesimo, un ricevimento ufficiale, col cosiddetto “rinfresco”, durante il quale si dispensava gran copia di bevande e leccornie gelate?
Alcuni nonni sentono ancora risuonare nelle loro orecchie il suono cadenzato prodotto dal vigoroso rimescolamento dello sciroppo di limone posto in un recipiente di allumino, che, immerso in un secondo più capiente contenitore pieno di neve mista a sale, ne assorbiva lentamente il freddo fino a far solidificare il suo contenuto, che diventava granita…Pian piano su quel mondo è calato il silenzio, quel silenzio ovattato che si avverte ancora, talvolta, quando torna a fioccare la neve.
La Sicilia
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