Quando il tempo batte cassa
di Anna Terranova


Ragusa – La storia di una città è fatta dagli edifici, certo, ma non meno da chi in quegli edifici ci ha trascorso un’intera vita. Sono parecchie le realtà imprenditoriali che continuano decennio dopo decennio a mantenersi invariate: posti magici dove il tempo sembra essersi fermato a prendere un caffè coi proprietari, compiaciuto a guardarli fare il lavoro a cui hanno consacrato la loro vita, attraversando epoche diverse, momenti storici, cambiamenti della città, tante generazioni. Se solo quelle pareti potessero parlare racconterebbero di gestori e proprietari che hanno creduto in un progetto e hanno concentrato tutto su quello, coraggiosi custodi di un’idea che non sempre si è adeguata ai tempi: a volte è rimasta immutata ed è invece stato lui, il tempo, ad adattarsi.
Non si chiama più così dal 1968 eppure, se chiedessimo ai Ragusani del “Talmone”, non esiterebbero a indirizzarci verso lo storico bar di Viale Tenente Lena, al centro di quello che era il cuore pulsante della città. All’interno, oggi come passato, chi entra viene accolto dal sorriso discreto, l’aria distinta e i modi gentili di Benito Blundo, classe 1935, con la moglie Lucia da cinquantadue anni dietro la cassa o il bancone.
Come è iniziata la vostra attività in quello che è uno dei primi bar di Ragusa?
Il primo bar di Ragusa fu il Caffè Trieste, seguito dal caffè Italia, poi da questo e dal Mediterraneo: il Talmone fu inaugurato nel 1952 dal signor Giampiccolo, conosciuto da tutti come “Cicciu u magu”, famosissimo in quegli anni. Lo chiamarono “Talmone” dal nome della ditta torinese di cioccolata di cui avevano tanti prodotti.
Dopo tre gestioni diverse, io e mia moglie nel 1965 abbiamo comprato l’attività e dedicato le nostre vite a questo posto: il nome non ci dispiaceva quindi lo abbiamo lasciato, fino a quando nel 1968 l’azienda Talmone fallì e quindi il bar tornò a chiamarsi col suo nome originario che tuttavia non aveva mai avuto: era il fulcro del viale Ten. Lena, il suo caffè.
Lavorava già nella ristorazione quando decise di buttarsi in questo progetto?
Avevo lavorato sia al Caffè Trieste che al Caffè Italia e collaborato all’apertura del Mediterraneo nel 1955. Tornato dal militare, presi in gestione le Torri d’argento e poi il ristorante Bellavista a Marina di Ragusa. Quando fu raso al suolo da un incendio vendetti la licenza a Gino e Paolo, che vi fondarono l’omonimo bar, e presi in gestione il Miramare. Quella era davvero un’epoca stupenda.
Come mai decise di lasciare Marina e tornare a Ragusa, prendendo un locale che aveva ancora una vita giovane e già varie gestioni alle spalle?
Questa parte di Ragusa era completamente diversa: era il cuore pulsante della città, eravamo circondati da tante banche, assicurazioni, tantissimi uffici, senza contare negozi e cinema. Al cinema La Licata ad esempio facevano il matinée, lo spettacolo domenicale a cui tante famiglie prendevano parte, e viale Tenente Lena era il prolungamento della via Roma, affollatissimo di gente che faceva la passeggiata.
Qual è il momento che ricorda tra i più importanti in questo bar?
Sicuramente la fondazione dell’AVIS trent’anni fa: “eravamo quattro amici al bar” -proprio come dice la canzone- e tra questi c’era l’infermiere Vittorio Schininà. Fu lui a porre il problema dei bambini talassemici: c’era bisogno di sangue ma fino a quel momento i donatori erano solo volontari, non c’erano molti controlli. Per l’atto costitutivo eravamo già in ventidue e da lì sono iniziate le campagne di sensibilizzazione nelle scuole e tante altre iniziative. L’Avis è una realtà sana, non politicizzata, di cui andiamo tuttora molto fieri.
Com’è cambiata Ragusa negli ultimi tempi?
Direi che è stato un cambiamento degli ultimi quindici anni: l’apertura di un centro commerciale così vicino al centro storico è stato un errore, il fermento della via Roma si è praticamente trasferito lì. Da privato cittadino riesco ad apprezzarne le comodità ma da un punto di vista commerciale è stata una scelta infelice per la città. La stessa dinamica c’è stata con il Cineplex, che ha causato la chiusura dei cinema del centro. Inoltre bisognerebbe ricordare che il ponte nuovo è stato realizzato per congiungere le due estremità della città: chiudere la via Roma al traffico aveva reso il ponte inutile, era stato il colpo di grazia per i commercianti. L’isola pedonale talvolta funziona ma in questo caso a parer mio era stato un fallimento. È anche vero che pure la gente è cambiata: ormai non ci si riunisce più, neanche i membri della stessa famiglia si vedono: prima la domenica si mangiava assieme e la gente veniva a prendere i dolci per il pranzo. Oggi spesso entrano gruppetti di ragazzi, si siedono e sfoderano dalle tasche i loro “strumenti”, neanche si parlano tanto sono concentrati a digitare!
Questo posto ha sempre avuto una precisa identità, sia nelle scelte dell’arredamento sia per i prodotti e la clientela: come avete mantenuto tutto invariato e quali sono le nuove prospettive per il futuro?
L’arredamento così “classico moderno” risale al 1980, quando abbiamo anche realizzato un nuovo bancone per gli aperitivi che pochi anni fa funzionava molto bene. Abbiamo scelto di non cambiare il bar, di mantenere invariati anche i prodotti di pasticceria e per quanto riguarda la clientela sono state prese delle decisioni precise, scoraggiando quella poco raccomandabile, anche a costo di perderci economicamente. Sul futuro non c’è molto da dire: i nostri figli hanno preso altre strade, noi siamo qui da 52 anni, la nostra vita è questo bar.
La Sicilia
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