Riceviamo e pubblichiamo
di Luciana


Ragusa – Ho letto da qualche parte che le brave ragazze vanno in paradiso .… ma le altre vanno dappertutto. E, quando riaffiorano i ricordi dei bei tempi, credo di poter confermare l’aforisma. Quando da ragazzina, d’estate, da Ragusa mi trasferivo a Vittoria, da mia zia, frequentare i miei cugini mi esaltava, mi faceva sentire più grande, mi trasformava e poteva succedere qualsiasi cosa. Con loro andavo dappertutto. Da brava ragazzina ubbidiente diventavo “Pierino la peste”. Nulla di grave, ma ero sempre pronta ad assecondare ogni marachella se se ne presentava l’occasione. E quel giorno…
1968. Mia cugina, “la grande”, aveva comprato, usata, con i proventi del suo primo lavoro, una cinquecento Fiat azzurra. Non doveva essere stato un grosso affare, o almeno lo era stato solo per chi gliel’aveva venduta.
Non so perché a quell’auto si sgonfiavano sempre le ruote. Erano deboli di gas o erano troppo vecchie le ruote? Chi può dirlo? Non si è mai capito. Di fatto, ogni due per tre, ci accorgevamo della zoppìa della macchinetta e, ormai esperte meccaniche, accostavamo al ciglio della strada e, come per la Ferrari ai box, una apriva il cofano, una estraeva la ruota di scorta, l’altra montava il cric, una svitava i bulloni badando di non perderne qualcuno, l’altra inseriva la ruota ed infine la grande riavvitava i bulloni e si ripartiva nel giro di 9 minuti. L’ultima volta che si era sgonfiata la ruota avevamo raggiunto il record di 8 minuti. C’erano ancora margini di miglioramento, ma non abbiamo potuto testarli perché la Cinquecento ha ritenuto, nel frattempo, di implodere per sfinimento.
Per non parlare di quando, invece, dal cofano vedevamo “levarsi un fil di fumo”: era evaporata l’acqua dal radiatore, motore a rischio surriscaldamento. In questo caso c’era poco da divertirsi. Come da rituale si accostava la macchinetta ad uno dei muretti a secco che costeggiavano la provinciale e, purtroppo, l’unica cosa che dovevamo fare era aspettare una mezz’oretta che il radiatore si raffreddasse per potere aprire il tappo senza farcelo scoppiare in faccia. A quel punto si rabboccava l’acqua provocando una vulcanica nuvola di vapore; ovviamente avevamo scorta d’acqua nel bagagliaio perche “non si sa mai” o meglio, perché si sapeva benissimo.
Quel giorno d’Estate decidemmo di andare al mare. Ma quella mattina quante eravamo su quella cinquecento? Eravamo in sei, quattro cugine più io e mia sorella. Da Vittoria (città afosa) a Scoglitti (spiaggia) otto chilometri. Eravamo sempre insieme, le solite sei, tutte donne, e non potevamo rinunciare a nessuna di noi senza provocare una tragedia familiare. Quindi deciso, alle dieci si parte, tutte quante, e speriamo di non avere impedimenti. Quattro dietro e due davanti, fa già caldo, apriamo la capote. Ma a metà strada ci raggeliamo. Ci accorgiamo della presenza in lontananza di una macchina dei carabinieri. Noooo! Questa non ci voleva. E adesso? Se ci beccano ci danno la multa.
Mia cugina, “la grande”, ha una idea geniale e mi dice: tu e a picciridda scendete e aspettatemi qua e non vi muovete. Noi scendiamo e lei parte. A picciridda era la cugina più piccola ed era leggermente preoccupata: “non è che ci lasciano qua?” “ma scherzi, siamo mica mosche”. Beh, però, un po’ preoccupata lo ero anche io.
Le vediamo superare la postazione dei carabinieri, girano la curva e le perdiamo di vista. Passano i cinque minuti più lunghi e silenziosi della mia vita. Sentivamo solo cantare le cicale nella calda mattinata estiva ed il profumo della campagna orfana del grano già mietuto. Finalmente il rumore di un motore, rivediamo sbucare la cinquecento dalla curva e dirigersi verso di noi. Io e a picciridda riprendiamo a respirare e, quando la cinquecento ci si ferma davanti, ci accorgiamo che dentro c’è solo la grande con un cappellone giallo in testa.
Ci affrettiamo a risalire e “la grande” riparte alla volta di Scoglitti. Quando le chiedo spiegazioni sul cappello mi dichiara con serafica ingenuità che così i carabinieri, al ritorno, non l’avrebbero riconosciuta.
Le altre ragazze ci aspettavano dietro la curva. Le abbiamo caricate e dopo dieci minuti eravamo in spiaggia dimentichi di quello che avevamo vissuto. Nulla più ha turbato la nostra giornata al mare ed il pomeriggio, tornando a casa, non abbiamo fatto imbarazzanti, incresciosi incontri.
Credo che oggi i carabinieri raccontino ai nipoti la storia di sei incoscienti ragazzine in giro su un catorcio di cinquecento azzurra e ci citino come esempio da non seguire, ma che ridano ancora sotto i baffi quando ricordano …. quel giorno.
© Riproduzione riservata