Attualità
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11/10/2009 21:58

L’orgoglio, la dignità e il dolore: i morti di Messina

di Un Uomo Libero

L’antichissimo Duomo di Messina ha accolto le bare dei poveri morti di Giampilieri e altre frazioni vicine in un abbraccio ideale per l’ultimo commiato dalla vita.

Sopravvissuto a tanti eventi funesti il venerabile monumento rappresenta da sempre l’incrollabile volontà dei siciliani a reagire a qualunque sciagura, il loro morboso attaccamento alla Terra che li vide nascere, che li vide crescere e che inevitabilmente li vedrà morire.

Noi siciliani siamo fatti così. Legati indissolubilmente alla nostra isola come l’amante alla sposa, come la perla alla conchiglia, come la vita all’acqua. Per questo il lutto da noi diventa un’elaborazione collettiva, un affare di famiglia.

Mi sono sentito coinvolto e triste per quella povera gente le cui bare erano solo tante bandiere tricolori allineate su un freddo pavimento di marmo. Mi sono commosso ad ascoltare la storia di quel giovane marinaio che sacrificò la sua incolumità per salvare tante vite, che neppure gli appartenevano in ragione di affetti, per quel legame forte che ci fa essere come nel glorioso Vespro, un unico popolo, un unico respiro, un’unica pasta.

Mi ha commosso quella bandiera strana, anch’essa formata da tre diverse strisce di tessuto, in memoria di una donna, una rumena, che, a pieno titolo, voglio considerare una di noi. Perché ne assimilò il costume e la lingua. Ne condivise  l’abnegazione e la speranza.

Messina era là raccolta sul sagrato, spettatrice muta di una tragedia civile i cui contorni sono tutti da definire, le cui responsabilità saranno rimpallate per  anni tra organi dello Stato sicuramente non all’altezza del loro compito istituzionale. Attonita, smarrita. Eppure icona di una rabbia grave, di una fiera consapevolezza che solo il dolore può scoprire ed evidenziare.

L’orgoglio dei poveri, sapientemente interpretato dalla dolente omelia dell’Arcivescovo, continuamente era manifestato, esaltato da raffiche di applausi. Pacato e dignitoso il Prelato si rivestì della sua alta carica di pastore per esprimere con parole semplici i toni di una tragedia annunziata. Senza scadere nelle chiacchiere, senza le ridondanze di un’omelia funebre, ma col cuore nella mano denunciò al Potere le inadempienze del potere. Levò alto fino alle stanze più segrete dei santuari della politica il suo umile ma terribile grido.

Con lui tutti noi, uomini di un’isola che qualcuno vorrebbe fare scomparire. Sotto la colata di cemento di una centrale nucleare o sventolando il miraggio di un ponte impossibile. Dimenticandola poi come tante volte accade per problemi molto più importanti e vitali.

Noi isolani, però, siamo abituati a tutto. Da millenni dormiamo sotto un sole ardente, incuranti delle dominazioni che ci passano accanto, dei governi che si sono succeduti nel tempo, delle chiacchiere che puntualmente sono cadute nel dimenticatoio delle coscienze. Il mare ci conosce e noi conosciamo il mare. Spesso ci ha preservato. Dalle contaminazioni barbare, dalle affermazioni gratuite, dall’ignoranza di chi ci crede solo paria impotenti di uno stato inutile.

Un Uomo Libero