Uno storico tedesco dell’Ottocento, parlando di quanto costituisce “materiale storico”, sarebbe a dire quel che può servire alla ricostruzione di una vicenda storica, segnalava gli “avanzi”, quei documenti, cioè, apparentemente di scarsa importanza, ma che nel tempo sono diventati, appunto, “materiale storico”; e tra questi le «carte d’affari (corrispondenze, conti, ecc.)», le quali, superando l’ambito privato in cui sono nate, possono fornire migliore conoscenza e comprensione di un’epoca.
Se questo è vero, il volume pubblicato soltanto qualche settimana fa, con la consueta eleganza grafica, dalle edizioni GBM di Messina, “Cecè e Casimiro. Vita quotidiana e storia nelle lettere tra un domestico e il suo barone”, curato con diligenza e sapienza da Laura Ryolo, diventa un importante documento per meglio conoscere, segnalando un microcosmo, il macrocosmo dell’economia, della cultura, degli atteggiamenti più diffusi nella Sicilia tra Ottocento e Novecento.
Ma oltre il suo valore in questa prospettiva storiografica, il libro curato dalla Ryolo, rendendo noto un carteggio privato, dove si parla soprattutto della complicata situazione economica di una famiglia baronale siciliana, sembra confermare una particolare lettura della storia: quella secondo cui i protagonisti di quest’ultima non sono i “signori”, bensì i “servi”; i quali attraverso il loro operare finiscono con il diventare indispensabili ai “signori”; e mentre questi lentamente decadono, sono, appunto, i “servi” – si pensi a don Calogero Sedara – che prendono in mano le leve dell’economia, e lentamente, ma inesorabilmente, li sostituiscono.
Un contributo, forse involontario, a questa celebre tesi viene già dal sottotitolo del libro, che recita: “Lettere tra un domestico e il suo barone”, e non viceversa, come le differenze sociali e culturali tra i due sembrerebbero richiedere. Credo che la curatrice più che dall’«inversione della storia», sia stata indotta a quella formula dal fatto che le lettere del domestico, di Cecè, siano molte più di quelle di Casimiro, il barone, il quale, come del resto «la maggior parte dei feudatari» di quell’epoca, scrive la Ryolo, «poco si curava della produzione o di effettuare investimenti significativi».
Ma accanto a questo appare anche l’altro elemento, l’inversione della storia, che giunge a compimento quando Cecè in un contratto «appone la sua firma accanto a quella del barone». In questo caso, però, l’essere diventato l’amministratore delegato, starei per dire, del barone, non significa che Cecè sarà uno dei tanti Calogero Sedara: infatti morirà povero, fiero della sua onestà, e sempre «orgoglioso del suo padrone», anche mentre «feudi e proprietà» se ne andavano, scrive ancora la Ryolo, «come rondini in autunno».
Quanto sto per dire forse potrà apparire strano: ma a mio parere questo libro, costituito quasi esclusivamente da documenti autentici, da lettere, dove la narrazione è praticamente assente, si inserisce, almeno sul piano dei “contenuti”, in uno dei più importanti filoni della cultura siciliana, dove si incontrano il “Mastro don Gesualdo” di Giovanni Verga, “I viceré” di Federico De Roberto e “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa (don Calogero Sedara è, appunto, un’ “invenzione” di quest’ultimo), che descrivono la decadenza dell’aristocrazia dell’isola; una decadenza che qui seguiamo attraverso le lettere del barone e quelle di Cecè, nelle quali ultime, di là dell’approssimativa grammatica e sintassi, giustificata dal livello culturale delle classi subalterne di quell’epoca, si incontrano espressioni pittoresche come quel «cane di maganza», diretto a un tale che aveva parlato male di lui: espressione che era, com’è facile capire, la deformazione del nome del traditore per antonomasia, Gano di Maganza, coprotagonista delle storie dei paladini di Francia.
Dire di tutto quanto della storia della Sicilia appare in queste quasi monotematiche lettere – il ruolo delle banche e degli usurai nell’economia dell’isola, le «misure poco opportune prese dal nostro beato Governo», le prime lotte sociali di fine Ottocento – non è ovviamente possibile. Credo però che i pochi cenni che qui ho cercato di dare siano sufficienti per capire che si tratta di un libro che entra di diritto nella storia della cultura siciliana e che fa onore sia a chi lo ha curato, sia a chi lo ha pubblicato.
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