"Si diffonde nella società una cappa che spinge a chiudersi nei propri egoismi, ma c'è gente che anela a respirare a pieni polmoni alla luce di Cristo"
di Redazione

Palermo – «Vedo in Italia una deriva da Paese da Terzo Mondo. C’è infatti una scollatura tra paese reale e ceto politico». A otto giorni dalla visita del Papa a Palermo l’arcivescovo del capoluogo siciliano, mons. Paolo Romeo, chiede a tutti (cattolici e non) un risveglio della coscienza.
Perché «la mafia s’è diffusa a macchia d’olio nel tessuto sociale»; perché il precariato è divenuto – oltre che una amara necessità – un «ammortizzatore sociale» per favorire clientele; perché il bisogno sociale dilaga e la politica resta incapace di governarlo.
Finora l’attesa del Papa non sembra scaldare i siciliani.
Le stesse Chiese dell’Isola, tranne lodevoli eccezioni, si sono mostrate tiepide all’evento. La percezione è che ci si sia ormai rassegnati all’impossibilità di un cambiamento. D’altronde se la politica dà l’immagine dell’armata Brancaleone, se la stessa Chiesa è macchiata da accuse infamanti, in cosa si dovrebbe sperare?
Eppure, dice monsignor Romeo, non si può non ripartire dai “punti di luce” che, nonostante tutto, esistono nell’Isola. Come l’esperienza di Biagio Conte che a Palermo accoglie 800 tra immigrati e senzatetto. O come la vicenda di tanti giovani che hanno scelto in questi anni di vivere in modo autentico e radicale la loro fede con scelte conseguenti. L’alternativa alla speranza non è appena la rassegnazione. E’ cadere in mano al potere. Che in Sicilia significa soprattutto potere mafioso. «Se la società in Sicilia dovesse abbandonare la Chiesa – dice Romeo – cadrebbe in mano alla mafia».
In Sicilia la Chiesa vive un momento decisivo. Essa rimane ancora un sostegno fondamentale per la lotta alla povertà (per esempio attraverso le Caritas e il Banco Alimentare) ma sembra ininfluente nelle scelte private dei fedeli e nelle scelte pubbliche della società. Come spiega che nelle grandi questioni della vita, nelle scelte politiche, persino nella determinazione dei valori fondanti (come la famiglia) la Chiesa siciliana si ritrova sempre più ai margini, incapace di incidere sulla mentalità dei fedeli?
«Rilevo aspetti preoccupanti. Anzitutto la scristianizzazione del vivere civile, con la marginalizzazione di valori fondamentali. La crisi della famiglia ne è un esempio lampante. Ma vi è anche una desacralizzazione: per esempio il valore della vita, dal suo nascere al suo naturale spegnersi, non viene rispettato ed accolto. Dobbiamo chiederci: allontanandoci da Dio stiamo crescendo nella nostra umanità, o ci stiamo abbrutendo? L’esperienza che facciamo nella nostra Isola è che l’uomo appare nemico all’altro uomo. Siamo arrivati anche a violenze ignobili dentro le mura domestiche. Abbiamo esaltato l’io individuale e i suoi diritti, ma stiamo perdendo la nostra umanità. Ci ribelliamo giustamente perché gli immigrati clandestini vengono respinti dal nostro Paese, e non solo. Ma, contemporaneamente, pensiamo che sia un diritto rifiutare la vita nascente che viene uccisa già nel grembo di una madre. Certamente questi fenomeni non possono non preoccuparci.
Anche nel settore economico prevale la legge del profitto, il diritto individuale ha il sopravvento rispetto al bene comune. E chi vuole risvegliare la coscienza del bene comune viene emarginato. Non a caso la Chiesa viene oggi attaccata: non credo che così si vada lontano».
Dopo le ultime campagne di stampa sulla pedofilia in ambito cattolico, molti anche in Sicilia hanno tratto la conseguenza che “allora non ci si può fidare più di nessuno”. Stiamo ritornando alle radici più individualiste e scettiche della nostra cultura siciliana? E come se ne esce?
«Siamo coscienti che portiamo un tesoro in vasi di creta. Il problema è vedere se il cedimento morale di una o più persone (vedi i casi di sacerdoti accusati di abusi) giustifichi la colpevolizzazione di tutta una categoria. Se ci sono dieci anarchici in Italia non si può dire che gli italiani sono tutti anarchici. Certo la Chiesa è addolorata per quei fatti, li condanna e si sta interrogando sul come riparare i torti fatti a degli innocenti. Ma tutti dovremmo chiederci cosa stiamo facendo per vivere gli impegni che, nello stato di vita proprio a ciascuno, abbiamo assunto. Non possiamo ignorare, per esempio, gli effetti che procurano sulla mentalità collettiva le campagne pubblicitarie o i telefilm in cui il sesso libero è sbandierato come una conquista liberatoria ed una conquista sociale. Dobbiamo tener conto anche di questa fragilità della società di oggi.
Conosco il bene e le miserie dei miei sacerdoti. Ci sono migliaia e migliaia di preti in Italia che con esemplarità si dedicano al bene degli altri. Non chiedo benevolenza verso il peccato di alcuni, ma non si dica che tutti i presbiteri presentano queste problematiche».
Il contesto sociale ed economico in cui avverrà la prossima visita del Papa in Sicilia è disastroso: a Termini la Fiat chiude, le grandi fabbriche del Siracusano e del Gelese avviano licenziamenti e prepensionamenti, la scuola pubblica lascia a casa 5 mila tra prof e personale Ata, la disoccupazione giovanile supera il 30%. E, come se tutto ciò non bastasse, la politica regionale è in piena crisi.
La Chiesa, in questa situazione, rischia di essere ridotta a una specie di Croce Rossa sociale.
Quale può essere, invece, il suo contributo più proprio alla rinascita dell’Isola?
«Abbiamo coscienza che la risposta della comunità ecclesiale ai bisogni materiali dell’Isola è una goccia d’acqua in un oceano di necessità. Qui a Palermo, per esempio, opera la Missione di Speranza e Carità iniziata da Biagio Conte che accoglie 800 bisognosi, per lo più extracomunitari. Ma ce ne sono migliaia e migliaia che andrebbero aiutati. La mia sofferenza è sapere che sono in maggior parte cattolici i responsabili politici e sociali che potrebbero rispondere adeguatamente ai problemi dell’Isola con appropriati provvedimenti legislativi, concreti programmi ed iniziative politiche. Si lascino ispirare dai principi che professano e promuovano un mondo più giusto e solidale.
Prendiamo il problema ormai cronico dei precari. In una regione dove scarseggiano gli investimenti e stentano ad attuarsi le attività imprenditoriali è comprensibile che un numero sempre crescente di persone cerchi opportunità di lavoro nel settore pubblico. Ma così facendo si è finito per utilizzare l’impiego pubblico come ammortizzatore sociale. La soluzione del precariato è purtroppo diventata la strada quasi obbligatoria: per la povera gente, purtroppo, è l’unico modo di sopravvivere; per i politici diventa spesso uno strumento per il mantenimento di un umiliante clientelismo. Occorre un ripensamento dei rapporti sociali e delle opportunità di lavoro, non prescindendo dal lavoro manuale. Anche perché nel momento stesso in cui diciamo che da noi non c’è lavoro, accogliamo migliaia di immigrati che trovano occupazione come lavoratori dei campi, muratori, badanti».
La mafia resta ancora un cancro della vita siciliana. Il fatto che vi siano sempre più mafiosi-devoti, o killer che vanno alle processioni e comprano statue di padre Pio, che riflessioni le suggerisce?
«La mafia s’è diffusa a macchia d’olio minando capillarmente il tessuto sociale. Certo con il trascorrere del tempo ha mutato strategia. Alcuni decenni fa sfidava prepotentemente le istituzioni: i grandi delitti riguardavano alti funzionari della giustizia o delle istituzioni. Oggi essa sembra attenersi ad un profilo di minore visibilità. In un mondo che punta tutto sull’interesse, anche la mafia s’è lanciata sull’economia. Per questo oggi sembra giusta l’azione di colpire i capitali mafiosi e i patrimoni acquisiti illegalmente. Penso che si possa e si debba dire che la mafia in quanto tale è antireligiosa, anticattolica. Solo se rinnoviamo le coscienze, strapperemo realmente alla mafia i suoi adepti. Non a caso c’è chi ha visto nel grido di Giovanni Paolo II ad Agrigento un’accusa chiaramente rivolta al fondamento peccaminoso della mafia: “Convertitevi – disse in quell’occasione il Papa ai mafiosi – c’è una giustizia di Dio a cui dovete sottomettervi anche voi”. La reazione della mafia non tardò e fu durissima: di lì a poco ci furono le bombe a San Giovanni in Laterano e l’uccisione di don Pino Puglisi».
Don Pino Puglisi resta un eroe e un martire della Chiesa palermitana. Un esempio per tutti…
«Puglisi era prete. Non era una persona attiva nelle associazioni antimafia che andavano prendendo corpo. Non organizzava convegni, o scuole di politica. Il suo impegno era rivolto alla formazione delle coscienze, pensava di fornire ai ragazzi una alternativa alla delinquenza. E’ questa ancora oggi la nostra responsabilità. ‘L’ozio è il padre dei vizi’, recita un noto detto popolare. Un giovane che sta sulla strada, senza prospettive di lavoro, senza istruzione può essere comprato a basso prezzo. Puglisi era un sacerdote semplice, che andava al cuore del problema. I boss non hanno fatto uccidere un sacerdote impegnato politicamente con dibattiti accademici contro la mafia. Hanno preso di mira proprio il prete responsabilmente impegnato nella parrocchia confidata alle sue cure pastorali, con una chiara visione di evangelizzazione e di promozione umana. Per questo chiedeva anche la scuola elementare nel quartiere Brancaccio. Uccidere Puglisi era uccidere chi faceva il bene in modo semplice, anonimo, ma efficacemente radicato nel territorio».
Lei ha esercitato il suo ministero al servizio della Santa Sede in vari Paesi in via di sviluppo. Vede un’analogia con la situazione siciliana?
«Ci sono analogie sul piano sociale e su quello politico. Vedo una deriva in Italia da Paese da Terzo Mondo. Si va registrando una scollatura sempre più profonda ed evidente tra il paese reale e quello politico. Quando questo accade i parametri si alterano e la realtà rischia che la promozione del bene comune sia sempre più lontana dagli interessi reali e dai bisogni della gente. Registriamo allora un degrado sociale e si crea financo una passiva assuefazione alla morte e alla violenza. La società non percepisce più i bisogni reali e la politica si chiude nel suo mondo».
Ci sono, nella realtà siciliana, fatti positivi e punti vivi capaci di mantenere aperta la speranza?
«Certamente sì. Anzitutto, c’è la storia delle nostre tradizioni che è ancora recente ed operante. Molti di noi hanno conosciuto una famiglia sana, capace di grandi sacrifici, di un esemplare attaccamento alla propria terra ed al lavoro. Su queste radici si può costruire. C’è poi un certo numero di giovani che si sforzano di andare controcorrente rispetto alla mentalità dominante scegliendo opzioni eroiche, come può essere oggi la vocazione al sacerdozio ed alla vita consacrata, o come la testimonianza di vita matrimoniale cristiana e professionale di tanti fedeli. Purtroppo ciò ha poca eco nei mezzi di comunicazione sociale e nella società in generale. Quest’anno ho ordinato sacerdote un avvocato che ha chiuso il suo studio dicendo: “Ho deciso di dedicarmi ad una causa più importante, quella del servizio a Dio ed alle anime”. Sono piccoli segni che, percepiti, diventano molto incisivi come la stella che in una notte oscura guida ed illumina il cammino del navigante. C’è, ancora, l’apertura alla vita delle nostre coppie: vuol dire che ci si abbandona fiduciosamente nelle mani della Provvidenza. Non va sottovalutato inoltre il fatto che a Palermo, infine, abbiamo una vitalità di carismi che continua ad esprimersi con la nascita di diversi istituti religiosi e la definizione di cammini di santità personale e comunitaria. Si direbbe che si diffonde nella società una pesante cappa di smog che spinge a chiudersi nei propri egoismi, ma c’è gente che anela a respirare a pieni polmoni alla luce di Cristo, dei principi evangelici e della comunione ecclesiale».
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