Cultura
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12/12/2007 00:00

Natale con i tuoi

di Redazione

Meteo: Scicli 19°C Meteo per Ragusa

“Ho bisogno d’affetto…per oggi tienimi con te”. Avevamo gridato tutta la sera, scherzando e ridendo per la strada, e poi, con maggior fiato, ad ora tarda, storpiando i versi di una canzone di Luca Carboni passata da tutte le radio. Adesso facevamo a gara a chi la gridava più forte, nella piazza che si era ormai totalmente svuotata dal passeggio serale e riempita di silenzio e dell’umidità di dicembre, assegnando un ideale tributo di ammirazione a chi per primo si faceva rimproverare, da dietro le persiane serrate delle case.

“Ho bisogno d’affetto…”, si era sgolato Giovanni, piegandosi in due su se stesso per cacciar fuori tutta la voce. “Ma andate a dormire, imbecilli!”: era lui il vincitore. E avevamo fatto di corsa venti metri, ridendo in maniera infantile, quasi fossimo inseguiti dopo aver commesso un furto. Ma la piazza, una lingua di anonime mattonelle d’asfalto sotto cui – mi avevano raccontato – scorreva un torrente nel quale le donne, fino a cinquant’anni prima, sciacquavano i panni, non volevamo abbandonarla. La piazza era nostra per quella notte: mia, di Giovanni, Angelo, Sandro, Vincenzo, Marcello, Enzo, ribattezzato – chissà perché -, sin da allora, “’U presidenti”.

I nostri sedici anni ci autorizzavano a spadroneggiare, a vivere le giornate prefestive tutte d’un fiato, senza il pensiero di doversi ritirare presto o tornare a ripassare sui libri la lezione per il giorno dopo. L’immancabile partita di calcetto, a sudare entusiasti e incuranti del clima invernale, poi subito dopo una giocata a carte nel salotto di un amico professore, nella quale avevamo portato un po’ di allegria e di scompiglio, le “vasche” in piazza, e infine il categorico monito: “Vigliacco il primo che si fa venire sonno”.

Quegli amici li avevo conosciuti due estati prima, nella spiaggia di Cava d’Aliga, offrendomi di giocare a calcio con loro: li sorpresi con la mia abilità di portiere, li legai a me con una corrispondenza fitta. E in ogni lettera ci confermavamo l’appuntamento fisso ai primi di giugno di ogni anno, non appena chiudevano le scuole: partite su partite di allenamento, in spiaggia quando calava il sole, in attesa di poter sfidarci in pieno agosto nell’agguerritissima Scicli-Resto del mondo: un match organizzato sin nei minimi dettagli per tutto l’inverno, che vedeva di fronte in maglia bianca i ragazzi del paese e quelli di altre città che si ritrovavano in villeggiatura nello stesso posto, in casacca rigorosamente rossa. A quel tempo non si parlava praticamente d’altro, preparando la rivincita dell’estate successiva o studiando come sconfiggere nuovamente gli “storici” avversari.

Quell’anno però, era il 1985, mi ero ripromesso di andarli a trovare anche per le vacanze di Natale, strappando il consenso ai miei genitori: “A patto, però, che torni in tempo per trascorrere a casa la notte del 24”. E fu abbastanza facile far collimare questa richiesta con i miei desideri: il “Ragusa-Roma” partiva da Scicli alle quattro del pomeriggio e sarebbe giunto a Catania, via Siracusa, intorno alle venti, proprio all’orario della cena con i parenti.

“Ho bisogno d’affetto….”, aveva insistito qualcuno, cercando di bissare il successo di Giovanni. “Basta, picciotti”, rispose un altro. “Io ho ancora fame”. A mezzanotte e mezza era letteralmente impossibile trovare in città un locale aperto: “La fame te la tieni, non abbiamo dove andare, a piedi”. “Qui dietro c’è una rosticceria che ha aperto da poco, magari…”. “Un pollo? Un pollo arrosto all’una di notte? Ma siamo pazzi?”. Mettemmo ai voti. Proprio quel “ma siamo pazzi?” ci aveva convinto che sgranocchiare due coscette fredde, innaffiate da due bicchierotti di Birra Messina, sui tavolini di plastica di quel triste locale che aveva la saracinesca già mezza abbassata e l’insegna spenta era un modo “grandioso” per chiudere quella giornata, e poi salutarci fino all’indomani, “vigliacchi” di sonno. La birra ci diede il colpo di grazia. “Ho bisogno d’affetto…”, gridò un’irriducibile. “Ma vai a dormire, imbecille”, gli rispondemmo in coro.

L’indomani ero salito sul treno puntuale, dopo aver avvisato i miei con il telefono a gettoni. I miei amici mi avevano accompagnato tutti insieme alla stazioncina di Scicli e adesso, mentre li salutavo dal finestrino, già pensavano a come passare il resto del pomeriggio. Li invidiavo, ma dovevo rispettare la mia promessa. Trovai il mio scompartimento facilmente, i vagoni erano praticamente vuoti: non più di cinque persone in tutto. Il “Ragusa-Roma”, nonostante l’altisonante cartello che battezzava il convoglio, era una littorina d’antan composta di tre vetture. Sedili di legno scomodo, come avevo visto qualche giorno prima in un film sulla vita di Pirandello, l’immancabile “odore FS” all’interno e poi, dulcis in fundo, “badi che il riscaldamento è fuori uso”, aveva detto il controllore.

Poco male, erano appena le quattro – mi tranquillizzai – e dopo neanche due ore sarei stato a Siracusa, a prendere la coincidenza per Catania. Il maglione di lana che mia madre aveva infilato di nascosto in valigia avrebbe fatto al caso mio, se avessi sofferto il freddo. Ma ora era tempo di inventarsi qualcosa per far scorrere i minuti. Prima però volevo assolutamente riempirmi gli occhi di quel paesaggio di cui mi stavo pian piano innamorando per la vita, un presepio di rosate “grotte” barocche e “muschio” di carrubi, una preziosa scoperta per me, da vantare con gli amici di città.

Seguii il lento movimento del treno che lasciava il paese con il naso incollato al finestrino, e per molto tempo ancora vi restai, alla scoperta delle campagne ricamate dai muretti bianchi, olivi che annegavano l’azzurrino smorto delle serre (adesso è il contrario!), l’azzurro vero – quello sì – del mare immortalato da Guccione che non mi abbandonava alla mia destra e che pian piano si faceva sempre più scuro.

“Ho bisogno d’affetto…”, ridevo tra me e me, ripensando alla goliardia della notte precedente, e calcolavo quante altre volte avremmo riso di quel tormentone soltanto sei mesi dopo, all’arrivo della nuova estate. Il buio che ora ricopriva tutto mi faceva prendere congedo da questo mondo, da questa vacanza, lasciandomi percepire soltanto le luci fioche delle fermate di campagna o le insegne delle varie stazioni lungo i binari.

Cominciai a giocare con gli anagrammi, una passione che avevo imparato sin da piccolo con la “Settimana Enigmistica” che mia nonna mi regalava dopo aver completato i cruciverba più difficili. Dapprima univo fra loro i puntini numerati per portare alla luce le vignette “celate”, poi mi incaponii sulle parole crociate facilitate, finché non riuscii a farmi un mio repertorio delle definizioni e delle risposte, alla fine – qualche anno dopo – mi sentii pronto per affrontare la temibile “pagina della Sfinge”, con sciarade, cerniere, lucchetti, palindromi e altri giochi di parole.

Giocare con le parole sarebbe diventato nel tempo, quasi senza accorgermene, uno dei miei piaceri più grandi: inventare brucianti doppi sensi o spericolate freddure “all’inglese” – tanto amate quanto detestate dai miei amici – talvolta a raffica, comporre racconti e poesie, attingere a ossimori ed assonanze per infarcire di efficaci metafore i miei “discorsi seri”.

Scrivendo sul finestrino appannato del mio scompartimento cercavo di ricavare diverse combinazioni di sei lettere per la frase “Ieri là”, che mi pareva intrisa di nostalgia. Ai lire: “Magari”, ironizzavo. Ira lei: “Lei chi? “Non c’è nessuna lei nella mia vita”, sdrammatizzavo, “nessuna che può adirarsi con me. E poi io le tratterò sempre bene le donne”. Ari lei: “Ari? Ah, sì. Sono quei fiori, altrimenti detti gicheri, che ritornano sempre nei rebus della Settimana”. I reali: “Questa ha più senso…”. Il treno frenò bruscamente, apparentemente senza motivo. Avevamo da poco superato Rosolini, la luce si spense e dovetti abbandonare i miei anagrammi, prima di riuscire ad attribuire un significato al successivo “Ire ali”: “Ire significa ‘andare’ in latino. Ma ali? Cosa c’entra?”. Lo avrei scoperto molti anni più tardi. Era il nickname di una ragazza che, senza saperlo, mi avrebbe stimolato a scavare tra gli episodi di quel Natale di oltre vent’anni prima. Già, ma allora chi sapeva cos’è un nickname?

“Signore, c’è una perdita di acqua nel vagone. Proviamo a ripararla, nel frattempo dobbiamo rimanere al buio”, andava dicendo ai viaggiatori il capotreno. “Ma quanto tempo ci vorrà?”, gli chiesi, guardando l’orologio. Non mi rispose, tornai a sedere e a guardare fuori, preoccupato.

Un’ora dopo il treno ripartì, a luci spente, a bassissima velocità e sostando più del previsto in ciascuna delle stazioni successive. Provai a chiudere gli occhi ma non avevo proprio voglia di dormire: ora i pensieri si alternavano confusi nella mia mente, in particolare temevo di non riuscire a rispettare il mio impegno di essere in tempo a casa per il Natale. Mi sentii improvvisamente solo, su quel treno, e ancora bambino, a dispetto dei miei “maturi” sedici anni. “Ho bisogno d’affetto…”, neanche lo scherzo della sera prima riusciva a rinfrancarmi.

Arrivammo a Siracusa alle nove di sera. Le banchine erano finalmente illuminate dignitosamente, ma non c’era anima viva, ad eccezione di un ferroviere avvolto da una grossa sciarpa colorata e alquanto scontroso. Gli domandai se avessi avuto il tempo di telefonare a casa per avvertire del ritardo, prima che il treno per Catania ripartisse. “Se riesci a trovare un telefono che funziona…”, mi liquidò. Aveva ragione, non ne trovai neanche uno e mi rimisi in viaggio, sempre più agitato, sempre più solo. Erano le dieci e mezza di sera quando entrammo nella stazione di Catania, sporgendomi per scorgere mio padre ed avvisarlo. Non riuscivo a vederlo, ma fui richiamato da un fischio, il suo fischio.

Stretto nel cappotto, sigaretta nella destra, agitava il braccio dolcemente per annunciarsi. Non sembrava arrabbiato, né preoccupato, per il mio enorme ritardo. Raccolse il bagaglio, mi accompagnò verso l’auto senza dire niente, intuendo quanto fossi turbato per l’evidente peripezia: l’allegria della sera prima, tutta quella baldanza di comitiva, era letteralmente andata a farsi benedire. E piano ci avviammo verso casa, dove il resto della famiglia mi aspettava per cenare. Finalmente mi chiese com’era andata la mia vacanza.

Quante altre volte ho rivisto quella scena, esattamente identica. Bus, treni, aerei: i mille ritorni dai viaggi che avrei da allora in poi affrontato – amici, studio, lavoro, amori -, sono stati sempre e pazientemente accolti nella stessa maniera, con lo sguardo fiero del padre che tacitamente osservava il proprio figlio esplorare il mondo, timoroso – forse – dentro di sé per il rischio di vederlo allontanarsi dietro a una piega della vita, smarrirsi nelle anse di un tragitto.

Poco prima che se ne andasse, due anni fa, ero andato invece io ad accoglierlo in aeroporto, imbarazzato e trafelato perché un’altra volta in ritardo, impaziente di strappargli il borsone dalle mani stanche. Poi la fuga: improvvisa, violenta, lacerante. Ed oggi lo aspetto mille volte in ogni giorno che mi è dato, sperando che – come in quella mia avventurosa notte di Natale – prima o poi saprà farsi presente, con un fischio o agitando il braccio dolcemente, tranquillizzando il mio cuore sempre bambino.

                                                                            Mariano Campo

il quadro è di GioSca, “Ritorno dell’emigrante”, olio su masonite, 85,5×120 cm