di Redazione

Noto – E giunse il giorno di Antonio Staglianò. Oggi pomeriggio alle 16, è stato investito della carica di capo della Diocesi di Noto mons. Antonio Staglianò, nominato il 22 gennaio scorso da Papa Benedetto XVI dopo che mons. Mariano Crociata era stato nominato alla carica di Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana. Il Sindaco di Noto, Corrado Valvo, in Piazza Municipio, a nome degli altri 8 sindaci della diocesi ha dato il benvenuto al nuovo vescovo. Dopo in Cattedrale la celebrazione eucaristica, concelebrata da mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, da mons. Domenico Graziani, Arcivescovo di Crotone-Santa Severina e dai Vescovi emeriti mons. Salvatore Nicolosi e mons. Giuseppe Malandrino insieme ai presbiteri della diocesi di Noto e ad un gruppo di presbiteri della diocesi di Crotone-Santa Severina. Mons. Antonio Staglianò è nato a Isola di Capo Rizzuto il 14 giugno 1959 ed è stato ordinato presbitero il 20 ottobre 1984. Dottore in Teologia e in Filosofia è stato Direttore dell’Istituto Teologico Calabro e Docente di Cristologia, Teologia trinitaria e Teologia della pastorale. Ha unito l’impegno per la ricerca scientifica a quello dell’animazione pastorale essendo stato parroco a Le Castella e Vicario episcopale per la cultura. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni teologiche e raccolte di poesie. Succede a Mons. Mariano Crociata chiamato dal S. Padre a ricoprire l’incarico di Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana. Alla cerimonia hanno preso parte i prefetti di Siracusa e Ragusa, i sindaci dei nove comuni e le e le autorità politiche e militari della diocesi di Noto.
Non abbiate paura di costruire la città nella speranza di Cristo risorto
Il saluto alla civitas di Noto
(2 Aprile 2009, S. Francesco di Paola e IV anniversario della morte di Giovanni Paolo II)
«Non abbiate paura. Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Si, solo lui lo sa». Con queste parole Giovanni Paolo II incoraggiò il mondo intero a camminare, senza fermarsi mai, oltre ogni resistenza e ogni difficoltà, nella speranza di poter costruire un futuro più felice perché più umano. Oggi, nella memoria del IV anniversario della sua morte queste parole rivestono una solennità particolare e dal silenzio muto della sua scomparsa possono essere riascoltate come “parole dette a noi”, qui, in questa ora del nostro incontro.
Così io vengo a voi, proclamandole con timore e tremore, ma nella convinzione profonda e certa che queste parole sono vere, comunicano verità alla mente, calore al sentimento, sicurezza nel guardare al futuro e infondono il desiderio di operare, di non stare inerti, con le mani in mano ad aspettare “godot”, ad aspettare cioè un Dio che non viene mai, che non agisce mai e che mai si fa sentire: «Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Si, solo lui lo sa». Lui solo, il Crocifisso, che nella condizione dell’assoluta impotenza sulla croce si è mostrato assolutamente potente nell’amore, nel dono di sé, spinto alla morte e nella situazione del suo silenzio muto sulla croce ha lanciato al mondo la parola più eloquente, quella che tutti capiscono: “Dio è amore”, Dio è buono, Dio è misericordia.
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Non abbiate paura, perciò, di predicare questo Vangelo di Cristo: “Dio è amore”, Dio è buono, Dio è misericordia. Poiché questo Vangelo non è una semplice dottrina o semplicemente un bel messaggio, ma è un evento, un fatto di vita, potrete e dovrete predicarlo solo vivendolo: si predica Cristo vivendo di Cristo e portandolo agli uomini. E allora, non abbiate paura di portarlo agli uomini, perché Cristo “custodisce l’umano dell’uomo”: si, solo Lui è custode dell’umano. Chi predica Cristo esalta la persona nell’uomo, coglie la bellezza particolare dell’umanità: solo l’uomo è capace di relazioni amative profonde, vuole realizzarsi nel dono, si autotrascende per gioire, rendendosi presente nel cuore dell’altro, facendosi spazio nella sua vita attraverso l’amore. Il Crocifisso non è un cadavere che pende da un legno, ma è il Vivente che sta sulla croce, per insegnare a tutti gli uomini –credenti e non credenti o diversamente credenti – che solo nel dono di sé, fino a morirne, splende la bellezza dell’umano e sul serio si contribuisce a costruire una civiltà degna dell’uomo. Venite, dunque, e dialoghiamo: ditemi se altrove potrete trovare questa bellezza. Ditemi: c’è bellezza umana nell’arroganza del dominio dell’uomo sull’uomo? No, la bellezza sta nel servizio e non nella sopraffazione. Ditemi: intravedete bellezza umana negli interessi di parte che spingono a sfruttare ingiustamente uomini e donne in questo tempo? No, la bellezza sta nella solidarietà che diventa un “prendersi” cura, una prossimità, una vicinanza. E ditemi ancora, direste che è bello l’uomo ridotto a consumatore, a pancia, nelle pratiche ordinarie delle società dell’opulenza, ridotto a numero nelle società complesse e anonime, ridotto a materia biologica, sfruttabile come “pezzo di ricambio di una macchina” o manipolabile per la soddisfazione (spesso solo capricciosa) dei propri individuali e soggettivi desideri nelle società della tecnologia avanzata. No, la bellezza umana sta nel riconoscere che l’uomo è persona e lo è nel suo atto proprio: l’amore, l’amicizia, la fraternità, la comunione. Il Vangelo di Cristo dice che Dio è comunione che genera comunione e incoraggia tutti gli uomini a recuperare la propria bellezza umana. E come dire: credi in Cristo, cioè diventa un vero uomo, sii un bell’uomo. Così, con tutto l’ardore e lo zelo per la causa di Dio ve lo dico con chiarezza lapidaria – e su questo vorrei con il tempo sentirvi e vedervi – : «il rispetto che noi abbiamo per la bellezza della nostra umanità è lo stesso rispetto che abbiamo per Dio, e viceversa».
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Non abbiate paura di educare l’umano dell’uomo, alla sua bellezza, alla sua verità. Lo abbiamo capito: i “no” pronunciati dal predicatore del Vangelo di Cristo sono dei “si” a questa bellezza, a questa verità. E’ un po’ come nei comandamenti. Se si dice “non rubare”, si afferma un “si” all’onestà che onora la dignità dell’uomo. Se si dice “non dire falsa testimonianza”, si afferma un “si” alla veracità che è base della fiducia sociale. Se si dice “non commettere adulterio”, si afferma un “si” alla fedeltà che è l’unica bella forma dell’amore coniugale. Dio è presente alla vita dell’uomo, non è lontano o assente. Dio è presente nei suoi comandamenti, in particolare il Dio ultimo lo è nel comandamento dell’amore di Cristo: “ama il prossimo tuo non più solo come te stesso, ma come io ho amato te, cioè più di te stesso, perché io ho amato te fino a morire per te”. Ecco l’amore (a-morior), cioè l’esperienza umana più bella che resiste alla morte e vince sull’oscurità della morte, poichè è scritto che l’amore è più forte della morte e i fiumi della morte non possono travolgerlo. Non abbiate paura di educare l’umano dell’uomo all’amore e perciò credete in Dio, perché Dio è dentro il processo che educa la persona nell’uomo, custodendone l’integralità, la responsabilità, l’affettività. Anzitutto, l’integralità dell’educazione: l’uomo non è emozione senza sentimento, ma non è sentimento senza intelligenza e razionalità; l’uomo non è spirito senza corpo, ma non è solo corpo senza trascendenza, senza relazione. Il corpo ha le sue forme belle, ma la vera bellezza non è solo forme, ma è soprattutto splendore. La bellezza splende e si accende nel dono di sé, si coniuga indissolubilmente con la bontà. Diciamolo allora con i greci che sono anche all’origine della civiltà di questi territori: non c’è autentica bellezza senza bontà (kalèkagathè). Poi, Dio custodisce la responsabilità dell’educatore, sostenendo la fatica che comporta ogni educazione umana: la fatica di guadagnare la realtà. Dio è realtà, non è il frutto delle nostre immaginazioni, non è un nostro soggettivo sentimento di infinito o l’idea che io mi forgio mentre dormo di notte. Dio-realtà impedisce che la realtà dell’uomo, del piccolo, del giovane, venga ridotta e svilita nei falsi illusionismi della società mercantile. Ascolta questa verità, sui cui imperniare un processo educativo di straordinaria importanza oggi: “tu vali di più dei soldi che hai in tasca; e se ti accorgi di essere considerato solo per quanto e come puoi spendere, diversamente sei niente e non curato, ribellati a questo impoverimento umano; tu vali di più, perché sei di più: sei trascendenza, splende in te la ricchezza dei doni di Dio, sei creatura, sei figlio “fatto a sua immagine e somiglianza”. Ecco la realtà, troppo spesso offesa nel vilipendio della dignità della persona umana nella tante forme della barbarie contemporanea. Educatori siate responsabili, introducete i piccoli alla realtà che non è mai una favola, una finzione e perciò resistete alla fiction come tentazione dell’anima, dove tutto – proprio tutto – è trasformato in esibizione, in show. Infine, la verità del nostro Dio educa alla affettività, come in gradimento del cuore nella capacità di donare e di farsi dono. E qui il mio pensiero trepidante va ai giovani, cercatori più di tutti della felicità. Io vi chiedo perdono, giovani, a nome di tutti poichè siamo convinti di non riuscire a parlare alla vostra intelligenza e al vostro cuore come oggi voi meritereste: Cristo ha molto da dire alla vostra vita, al linguaggio del vostro corpo, alle pulsioni della vostra sensualità, all’energia che esplode nelle vostre passioni e nella vostra ricerca della gioia; e noi, noi ci troviamo come impotenti ad illuminare il cammino della vostra vita, spesso restiamo senza parole vere che siano capaci di intercettare i vostri sogni, le vostre speranze e non osiamo incoraggiarvi ad avanzare sui sentieri luminosi della bellezza dei sensi, della grandezza degli affetti, della potenza dell’amore, lasciandovi in balia dei venti travolgenti dell’edonismo e del consumismo, del “prendi ora e fuggi”, “tutto e subito”, – proprio quei venti che vi lasciano alla fine vuoti e non vi trasmettono nessun gusto, vi lasciano disorientati e senza direzione, senza senso, nel nulla di fatto.
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Non abbiate paura di tradurre la vostra fede in passione per l’educazione e nel lavorio delle trasformazioni culturali, sociali e politiche. Cristiani dell’amata Diocesi di Noto ascoltate: la devozione è importante e necessaria, il culto – specie nella liturgia – è decisivo perché accada l’incontro “corporeo” con un Dio che non è una idea, ma è evento misericordioso nella vita degli uomini, ad un tempo però questa devozione e questo culto devono “dar buona prova di sé”, della propria bellezza e verità: in che cosa? Nella fede operosa attraverso la carità (fides quae per caritatem operatur), cioè in gesti concreti – corporei- di amicizia (oltre e contro ogni interesse egoistico), di fraternità (oltre e contro ogni razzismo), di solidarietà (oltre e contro le discriminazioni dell’ingiustizia sociale), di prossimità generosa (oltre e contro ogni avvilente solitudine propria dell’indifferenza dei cuori induriti, pietrificati). Per questa via il cristianesimo diventa credibile – perché (in-)credibilmente bello – nelle nostre società multietniche, multireligiose e multirazziali, asfissiatamente secolarizzate. Sogno ad occhi aperti questo cristianesimo e auguro che diventi la forma della nostra comunità cristiana. Per questo cristianesimo, io – lo confesso pubblicamente – mi impegnerò e vorrò donare la mia vita. Nella misericordia di un Dio che mi ha travolto con la grazia dell’episcopato – officium amoris per voi, popolo netino -, vi chiedo dal profondo del mio cuore di permettermi di lavorare per questa bellezza cristiana: non perdiamo tempo in certa religiosità paganeggiante che ci vede festaioli senza festa, devozionisti senza devozione, pietisti senza pietà e ci rende schizofrenici nella fede, cioè credenti in un Dio che non impatta mai nella storia e non si fami carne della vita. Chi adora il Padre di Gesù Cristo sa che non può farlo senza diventare custode del proprio fratello: diversamente si diventa “caino” che non sa rispondere alla domanda di Dio. “caino dov’è tuo fratello?”. Il cristianesimo è sorgivamente sociale, nasce dal Logos nella carne e il Logos è verbum, parola, intelligenza, sapienza, ma è anche un legare, un mettere insieme, una comunione e, ancora, è fuoco, passione zelo per la vita dell’uomo. Non perdiamo allora tempo, perché urge in noi la carità di Cristo e perciò è oggi il tempo propizio (il kairòs) per aprire i cuori a Dio, per spalancare le porte a Cristo, servendo l’umano dell’uomo, la sua dignità, la sua verità, la sua bellezza.
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Non abbiate paura di dare spazio a questo cristianesimo e a questa comunità cristiana: lo dico ora a quanti presiedono all’autorità pubblica. Vi saluto e vi ringrazio per la vostra accoglienza, Signori prefetti e questori delle provincie di Siracusa e di Ragusa, autorità tutte, civili e militari, di ogni genere e grado, sindaci dei nove comuni della Diocesi di Noto, Presidenti delle Provincie –permettetemi di salutare l’on. Bono che mi ha onorato della sua presenza a Crotone per l’ordinazione episcopale il 19 marzo 2009, ma anche i sindaci di Crotone e di Isola Capo Rizzuto che mi hanno accompagnato fin qui. Date spazio a questa comunità cristiana, non sospettate il lavorio delle coscienze proprio della Chiesa cattolica: essa è servizio all’umano, educazione continua alla fiducia sociale, animando dal di dentro il sentimento più nobile della bellezza dell’uomo, quello della partecipazione: desideriamo partecipare al progresso e allo sviluppo– anche civili della nostra società, purché siano progresso e sviluppo dell’umano e della sua bellezza. Incoraggio i miei preti a non desistere mai dal cooperare con gioia, con creatività e nella libertà dell’amore a questo lavorio pastorale. Il Vescovo è unico in una Chiesa locale, ma non è solo, perché vive della comunione del popolo santo di Dio e soprattutto di quella del presbiterio, unito intorno al Vescovo e con il Vescovo. Anche così si comunica oggi – in un mondo frammentato e dispersivo – la verità del nostro Dio: Dio è unico, ma non è solitudine, bensì eterno dialogo di amore. Dio è agape, Dio è amore.
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E allora camminiamo insieme. Associo a questo cammino quanti mi hanno accompagnato da Crotone, da Isola Capo Rizzuto e dalla mia parrocchia di Le Castella, amici confratelli presbiteri e fedeli laici che mi hanno mostrato così la loro amabilità. Nel giorno di S. Francesco di Paola, il grande santo calabrese, taumaturgo, ascetico e mistico e sempre presente alla condizioni storiche del tempo (non disdegnò all’occorrenza di incontrare anche i potenti del tempo in Italia e in Europa), noi abbiamo attraversato – come anche lui fece – lo “stretto di Messina”, guadagnando la Sicilia con speranza e gioia. Grazie. Da qui rivolgo il mio saluto e il mio grazie all’Arcivescovo della mia Diocesi di origine S.E. Mons. Graziani per la sua paternità e per quanto ha fatto per me fino ad ora. Ora il mio cuore freme dentro di me per questo incontro, per questo abbraccio. Ora avanziamo verso la Cattedrale, – da dove i miei predecessori (Mons. Nicolosi, Mons. Malandrino e Mons. Crociata) hanno predicato il Vangelo, guidandovi con il loro sapiente magistero. La nota bellezza della Cattedrale diventi un programma e un auspicio per la nostra fede: la bellezza di Dio diventi sempre più nota in questo territorio e la Diocesi di Noto stessa, ultima postazione della penisola italiana, ma anche centro del Mediterraneo, diventi soprattutto nota nel mondo per la testimonianza che saprà dare alla bellezza di Dio, all’opera misericordiosa di Dio tra noi.
La carità è tutto. Solo la carità resta in eterno
Omelia del 2 Aprile 2009 S. Francesco di Paola (ingresso a Noto)
«Io mi glorio del Signore». E come potrei non farlo nel vedere tante sue meraviglie in questa vita: oggi un muto grida di gioia, uno zoppo saltella come un cervo, un cieco ci vede e il deserto del mio cuore è fecondato con acqua che zampilla per la vita eterna. Perciò, vi invito a benedire con me il Signore in ogni tempo, perché la sua lode sia sempre sulla nostra bocca: «grande è la tua misericordia, Signore. Mai scorderò le tue misericordie».
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Carissimi tutti, vi saluto nella pace del Signore della misericordia. Anzitutto saluto voi Eccellentissimi Padri, Mons. Nicolosi, Mons. Malandrino, Mons. Crociata che siete stati guide illuminate e amate di questa nostra Chiesa di Noto; e anche voi, confratelli nel sacerdozio e nel diaconato, religiosi e religiose, che faticate ogni giorno per annunciare il Vangelo e portare speranza nell’esistenza degli uomini e delle donne in questo nostro tempo; e ancora voi, seminaristi teologia che già siete la mia gioia e la mia speranza; e infine voi, illustre autorità civili, politiche e militari che impegnate le vostre energie a costruire una convivenza umana pacifica e solidale. A tutti voi – santo popolo di Dio – dico: “cercate il Signore per trovare le risposte vere della vita ed essere liberati da ogni paura”. Infatti, “il Signore ascolta il nostro grido e ci affranca da tutte le angosce”. Perciò, “guardiamo a Lui per diventare raggianti, perché i nostri volti non vengano abbruttiti dalla confusione del male, ma siano resi belli dalla gloria luminosa del bene”.
Noi possiamo fare il bene, perché umilmente ascoltiamo la parola della misericordia del Signore e siamo resi umili dall’incontro di un Dio che si comunica alla nostra vita, come misericordia e perdono. E’ uno straordinario miracolo quello che capita ogni giorno da più di duemila anni orsono: la persona stessa di Dio impatta – corpo a corpo – con noi e ci abilita ad essere e a fare in libertà quello che Lui vuole. Tocca a noi – non senza la sua grazia – fargli spazio nel nostro cuore, perché sia Lui a operare e ad agire in noi, con noi, attraverso di noi: là, in quel punto nel quale percepisco di essere niente, da quel nulla d’essere si rigenera quotidianamente la potenza ricreatrice del Dio che dal nulla crea terra e cieli nuovi. Così, l’umiltà si oppone alla saccenza e non tanto al sapere, è refrattaria allo scientismo presuntuoso e non alla scienza servizievole. Così, soprattutto, l’umiltà a poco a che fare con l’incapacità inoperosa o con il ritrarsi pigro o con la meschinità di chi trova la sua pace fuggendo dal mondo, nascondendosi dai venti impetuosi del travaglio dell’esistere. No, al contrario, l’umiltà ha a che fare con la grandezza di chi è cosciente d’essere stato fatto a “immagine e somiglianza di Dio” e pertanto sa di non poter/dover vivere al di sotto delle proprie possibilità umane. Noi ti benediciamo Signore, Dio del cielo e della terra perchè che ci hai usato questa misericordia: hai rivelato te stesso a noi, tuoi piccoli, a noi che ascoltiamo solo le tue parole, ricche di sapienza di vita, e che veniamo a sapere da te qual è la misura vera della nostra umanità: vivere umanamente “come Dio”. Non di più: sarebbe un ritornare a mangiare dell’albero della vita e della conoscenza del bene e del male, mettendoci al posto di Dio. Non di meno: perché possiamo essere quello che siamo, umani, raggio della tua potenza creatrice, proiettati sull’orizzonte infinito del tuo amore, sempre inquieti rispetto ad ogni grandezza raggiungibile in questa storia, finchè non troveremo riposo in Te, l’unico che può colmare il nostro desiderio d’essere come Te. Questo desiderio d’essere come Dio è la bellezza più grande dell’umano, non una colpa, non un peccato: proprio qui splende l’umiltà a cui Dio ci convoca e ci incoraggia: sii umile, cioè vivi della grandezza di Dio; sii umile, cioè vivi della pienezza della tua umanità. Diciamolo subito, fuori da ogni retorica spiritualistica: a ben considerare le cose, l’aspirazione ad essere primo è un atteggiamento che suscita solo il nervosismo dei discepoli gelosi e conflittualmente competitivi, mentre invece origina la comprensione di Gesù, il mite e umile di cuore che accoglie gli affaticati e oppressi per ristorarli. Gesù non contesta quell’aspirazione, anzi la eccita con il suo modo di operare e di agire, certo insegna la via per realizzarla tutta: l’unica via sta nel prendere su di sé il suo carico leggero e soave, la via del servizio, la via dell’imitazione di Cristo, il quale non è venuto nel mondo per essere servito, ma per servire, totalmente, radicalmente, fino in fondo, spingendo il dono della vita fino alla morte di croce, per amore. E chi può comprenderlo questo? Forse gli intelligenti, quelli che hanno studiato? Forse anche loro se restano piccoli, se l’intelligenza e lo studio non hanno obnubilato in loro la convinzione credente che quella comprensione è frutto della presenza dello Spirito Santo, l’amore di Dio effuso nel nostro cuore. Lo Spirito Santo che è Dio e, in Dio, spinge Dio all’estasi, ad uscire fuori di sé per creare l’altro da sé, disponendosi ad amarlo perdutamente, è lo stesso Spirito che in ogni credente urge il dono di sé oltre se, nella libertà dell’amore. Questo amore in libertà non è una teoria, una bella dottrina, ma è evento corporeo, che ha le sue forme concrete: è carità che diventa anzitutto servizio, prossimità, vicinanza a tutti i bisogni.
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E’ sicuramente anche questo il senso – recepito d evidenziato nella tradizione ecclesiale cattolica – del titolo attribuito a colui che presiede alla carità di tutte le Chiese e detiene il primato di Pietro, il capo del collegio apostolico, e perciò è singolarmente il primo, cioè il Vescovo di Roma, chiamato servus servorum Dei, il quale nel servizio del ministero petrino deve obbedire al comando di Gesù «Tu … conferma i tuoi fratelli» (Lc 22, 32), sempre pronto a rispondere a chiunque domandi sulla ragione della speranza cristiana (cfr. 1 Pt 3, 15). Questo servizio è anzitutto officium amoris, il rendere presente l’amore di Dio nella vita degli uomini nella forma stessa nella quale questo amore si è manifestato e rivelato ai piccoli: la sovrabbondante misericordia del Padre, la sua gloria nel perdono dei nostri peccati e nel desiderio di riconciliare, sempre, in ogni modo, confermando i fratelli nella verità della fede e ristabilendo la comunione, là dove sia stata infranta.
Vorrei allora pubblicamente rispondere alla lettera che il nostro servus servorum Dei, Benedetto XVI, ha inviato a tutti i vescovi e anche a me, ancora vescovo eletto di Noto. Da questa cattedra – che Lei Santo Padre si è degnato di affidarmi – Le esprimiamo i sensi della nostra filiale devozione, della nostra incondizionata fedeltà alla sua guida pastorale e al suo magistero dottrinale e riconosciamo il vero significato della remissione della scomunica dei quattro vescovi, ordinati validamente benché illegittimamente: è stato un “gesto discreto di misericordia”, un gesto di carità che vuole disporre alla riconciliazione, alla comunione e alla pace. E’ stato un gesto la cui melodia può essere oggi meglio apprezzata se ascoltata nel ritmo stesso dell’inno alla carità di S. Paolo: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità» (1 Cor 13, 4-6). La “valanga di proteste” da Lei riferite – Santo Padre – hanno per altro qualcosa di paradossale da registrare: il “complesso antiromano” si è caratterizzato nella storia della Chiesa per tanti e diversi aspetti, ma sempre riferiti alla percezione di certa implacabilità del cosiddetto “potere centrale”, di certo irrigidimento burocratico e di certa mancanza di misericordia nel giudicare alcune situazioni personali o comunitari. E’ paradossale e inaudito che oggi – ma forse è questa una espressione della confusione della condizione umana post-moderna-, la protesta si rivolga ad un atto di misericordia e di riconciliazione. La “riconciliazione” dovremmo intenderla alla luce delle parole di Gesù: «se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei …» o «se amate solo quelli che vi amano» o «perdonerete al fratello non sette volte, ma settanta volte sette». Sono infinite le parole con cui Gesù ci qualifica come coloro che imparano da Lui ad amare unilateralmente e senza condizioni, perché siamo depositari del suo amore, cioè siamo abitati da Lui che è l’Amore, Spirito Santo, l’Amore effuso nei cuori di ciascuno di noi sin dal giorno del battesimo. E’ la carità che «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine» (1Cor. 13,7).
Santo Padre, la Diocesi di Noto vuole “sentire con la Chiesa e con Pietro”, perciò La ringrazia per aver voluto focalizzare la priorità pastorale del suo ministero che deve diventare inequivocabilmente anche la mia, anche la nostra: «nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più».
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Noi però nasciamo e siamo Chiesa da questo evento: «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui »; « Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto » (1 Gv 4,16). Il Signore viene sempre e sempre avviene: Dio ci incontra in Gesù, è Lui che viene incontro a noi, è Lui che si avvicina alla nostra esistenza per amarla in ogni tempo e in ogni sua condizione. Sentiamoci amati da Dio: Egli non ci lascia mai soli, cammina con noi, ci tiene per mano ed è realmente presente tra noi.
Perciò cerchiamo forme nuove per rendere più bello il volto della nostra Diocesi e anche nuovi modi per rendere più significativamente cristiana la nostra vita. È infatti la bontà della vita la testimonianza più vera che Dio ci incontra, che Dio avviene e ci converte, cioè riempie il nostro cuore della sua gioia, dissipando inquietudini e insoddisfazione, rancori e gelosia, invidie e arroganza, presunzioni e orgoglio.
In questa ricerca non saremo soli. Mentre ringrazio i vescovi predecessori – Mons. Nicolosi e Mons. Malandrino – per quanto hanno fatto e ancora potranno fare, vorrei inquadrare nel mistero dello Provvidenza di Dio il fatto che Mons. Crociata sia diventato segretario generale della CEI: da qui avvertiamo la speranza di un mutuo scambio nel dono. Il suo ministero episcopale resterà per sempre netino (così ha affermato, fuori da ogni retorica, con convinzione) e perciò, viceversa, anche il cammino pastorale della nostra Chiesa dovrà/potrà fruire della sua particolare attenzione apostolica, della sua amabile vicinanza, della sua collegiale affettività ed effettività nelle opere di bene che la fantasia della carità saprà sprigionare in questo nostro tempo propizio, in questa nostra ora. Guardiamo allora con speranza al futuro della nostra Chiesa. Insieme lavoreremo per impostare il lavoro, nella continuità doverosa e nella creatività necessaria. Perciò «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa», perché l’acqua della grazia di Dio ritorna a inondare la nostra vita e tutti noi vedremo la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio. Potremo allora cantare con Maria e come Maria –qui venerata sotto il dolcissimo e speranzoso titolo di “scala del paradiso”: «Dio è onnipotente nelle grandi cose che compie tra gli uomini, santo sia il suo nome, perché guarda all’umiltà dei suoi servi». Ritorna in Maria umiltà che si sposa con la grandezza, cioè con la carità. E’ umile come Maria chi aspira alla carità, perché solo tre cose rimangono: «la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità» (1 Cor 13,13). Lo vogliamo proclamare soprattutto oggi, giorno della memoria del grande santo calabrese, S. Francesco di Paola, il cui motto – che ben interpreta la sua esistenza – è appunto “Charitas”, a lui affidandoci, insieme a S. Corrado nostro patrono. Lo volgiamo proclamare con gioia grande e convinzione ferma:la carità è tutto. Solo la carità resta in eterno.
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