Cultura
|
12/07/2008 12:57

Scheria, la terra di Nausicaa

di Redazione

Il pezzo é molto autobiografico. Scheria é un non luogo, l’isola che non c’è, il luogo letterario dell’affabulazione e del racconto. E Nausicaa é la Musa per eccellenza che abita questo non luogo. Che ispiró Odisseo nel suo favoleggiare e lo incatenó alle sue “bianche braccia”. Che ispiró mia madre quando mi raccontava le sue storie.  Ho voluto fotografare la vita di Sampieri negli anni cinquanta  con la fedeltá di un vecchio dagherrotipo. Ho cercato di fissare sulla carta e per sempre i vaghi ricordi di quel tempo felice.
 
Un Uomo Libero.
 
 

SCHERIA, LA  TERRA  DI  NAUSICAA
 

Ricordo i primi di giugno di molti, molti anni fa. Mia madre teneva stretta la mia piccola mano di bambino fra le sue, premurose e calde, in una piazza non ancora visitata dal sole del mattino. Un po’ assonnato mi lamentavo per una colazione veloce, divorata sotto l’incalzante minaccia di perdere l’unica corriera. Un vecchio autobus arrivò puntuale per portarci, tra scoppiettanti sbuffi di marmitta e forti e nauseanti odori di nafta, a Sampieri. Dopo una serie di curve simili a gironi danteschi, scivolò allegro e rumoroso sui rettifili polverosi, attraverso vigne verdissime i cui grappoli verdi, impazienti, aspettavano il sole dell’estate. Ansimava dietro i numerosi carretti che popolavano la strada stretta, inadatta anche solo per azzardare o permettere un sorpasso. Finalmente il mare. Una striscia di azzurro marcato su un orizzonte di tenue cielo. Ferma, quasi dipinta. Con tante barchette apparentemente sospese. Ad uno dei corni della baia che si intravedeva lontana lo stabilimento bruciato di Pisciotto. Uno scheletro bianco ed ocra che dominava in primo piano il paesaggio. Posato come un’ostrica morta sopra una lingua di costa frastagliata, si specchiava, autentico miraggio, nell’acqua. Austero, severo, emergeva da un tappeto verde di fichi e di gelsi. Vigilava con aspetto paterno sulle lunghe distese di sabbia. Dune, ma pure estese barriere ricamate dal capriccio del vento. All’altro corno della baia immensa, assolata, dalla curva modulata e dolce, finalmente Sampieri. Un grappolo di case bianche e basse, strette intorno a un palazzetto e ad una piccola chiesa. Un minuscolo molo. Là le donne aspettavano il ritorno degli uomini che la notte erano andati per mare. Di fronte il Canale. Spazio aperto dell’anima. L’autobus aspettò che il passaggio a livello rialzasse le sue sbarre pesanti. Si lasciò andare ad una piccola corsa in discesa che si concluse in un ampio spiazzale delimitato da un folto canneto. Mia zia era là. Come ogni anno ad aspettarci inquieta. Le braccia impazienti di stringerci al petto. Rivestita di un lutto inconsolabile e antico. Il volto ieratico, annerito dal sole, consumato dal sale come gli intonaci delle stanze, come le tegole stracotte dei tetti, come le piccole basole dell’unica strada lastricata sulla quale si affacciava, dignitosa e povera, la sua casa. Una vecchia grande casa di pescatori. Custodiva nel suo interno i segreti di tante vite vissute, un grande baglio e un modesto giardino – pochi alberi a me molto cari- che divideva con la piccola chiesa. L’odore della salsedine e quello dell’incenso pizzicavano le mie narici sensibili. Perdevano nella notte il loro afrore, annullati da un forte profumo di limoni e gelsomino. Agguantò lei la valigia e gli  altri bagagli. Subito ci avviammo verso la casa. Il sole ora era alto nel cielo. Una brezza sottile mi rinfrescava il viso, mozzava il respiro. Lo zio, il marito, sedeva su una sedia strana che conteneva a fatica il corpo immobile, bloccato da tempo da una grave e progressiva paralisi. Quando ci vide accennò un sorriso. Comunicava a gesti la sua felicità. Aglio, prezzemolo e capperi, una spolverata di pepe rosso per una rituale insalata di mare che, nel pranzo del primo giorno, non poteva mancare. Odori forti, sublimati dall’ombra rara, familiari ai pescatori sdraiati, intenti a riparare le reti. Visitai, con l’ansia di chi arriva, ad una ad una, le persone amate. Un universo chiuso dove tutti sapevano di tutti e un arrivo si trasformava in un evento di per sé da ricordare. Perché nulla o quasi nulla di veramente nuovo accadeva là. Ricordo le carezze, i baci sulle guance, gli sguardi buoni, le lunghe feste per la mia venuta. Mi sentivo atteso, importante, conteso dai personaggi delle mie ore liete. Vincenzo dai rossi capelli, il capitano, la bella Jole, Pietro il pescatore e don Santino del quale subito, ad ogni mio ritorno, diventavo cliente assiduo e affezionato. Vendeva di tutto. Soprattutto gelato. Abitava un buco stretto e lungo. Una tana a lato dell’unico spiazzo ricavato da un vecchio giardino e di fronte a lui c’era solo il mare. Amavo accucciarmi ai piedi del capitano nelle afe appiccicose di luglio e raccogliere dalle sue labbra, fra una tirata e l’altra dalla pipa, il racconto esclusivo di avvincenti avventure. Socchiudeva gli occhi.  Lisciava spesso con paffute dita una barba incolta e grigia. Si lasciava pigramente cullare da un vecchio dondolo come a volersi pensare ancora sulla sua fantastica nave. M’incantava la sua voce stridula, falsa, di vecchio pirata. M’innamorai, come gli altri anni inevitabilmente, di Jole. Bella, sfuggente, sempre più formosa e dolce. Accarezzava i miei riccioli biondi, al tramonto, fino a farmi male. Sorrideva delle mie paure mentre pensava al suo ragazzo lontano, militare. Ritrovai intatto anche il mondo incantato della sera. I lunghi balli in piazzetta fino a notte fonda, complici una chitarra e una fisarmonica che costruivano delicate atmosfere. Si prestavano, mezzane, a segrete alchimie d’amore. E, all’imbrunire, tutti in spiaggia a tirare le reti calate dai pescatori nella notte. Era festa mentre il pesce saltava ancora vivo sopra ardenti graticole di sogni. Ritrovai, odoroso di legno nuovo, anche il discusso Chalet. Quasi una balera. Un luogo di perdizione a sentire gli anziani. Rigorosamente proibito a me e a quelli della mia età. Giovanotti e signorine lì ballavano soli, lontano dagli sguardi vigili dei genitori guardiani. Vagavano le coppie degli amanti fra gli alti steccati. Per una luna sfolgorante e ingrata in cerca di un’ombra complice, cacciati da noi ragazzini che volevamo solo capire il grande mistero della vita. Dopo il pranzo, mia madre e mia zia ripresero le loro antiche abitudini. Mi portavano al mare. Si attrezzavano di un grande ombrello di tela incerata e di un sacco che conteneva  le cose necessarie. Andavamo per canneti sugli scogli di punta Sampieri. Aprivano il grandissimo ombrello e lo incastravano fra le rocce. Mi mettevano a sguazzare in una pozzanghera in mezzo agli scogli dove l’acqua scottava quasi. Con la lentezza di un rito sbottonavano le lunghe vestaglie nere, rimanendo coperte con ampi camicioni bianchi. Si adagiavano fra le rocce roventi, all’ombra, abbandonandosi a lunghi silenzi. Le loro vite scorrevano lentamente come sequenze di un film sotto le palpebre chiuse. A volte appena un sospiro. Assistere a quelle metamorfosi o carpire le confidenze sussurrate sul pelo delle labbra, mi dava un senso di morbosità e di vertigine. Ritornammo a fare le lunghe passeggiate della sera allo stabilimento bruciato. Aspettavamo lì il tramonto del sole dietro le case e gli orti del borgo. Seduti sopra rocce a picco sull’acqua, immersi in una luce d’oro.

Sembrava che la morte non esistesse in un  mondo tanto perfetto e surreale. Ma così non era. A poco a poco, negli anni, le figure della mia prima giovinezza scomparvero senza avere neppure il tempo di lasciarmi un addio. Lo zio morì. Nessuno pianse la sua morte annunciata. Di quel momento mi restano solo vaghe e curiose impressioni. Il ricordo di un grande pranzo, il pranzo del consòlo, consumato tra una babilonia di parenti. Un brodo caldo e profumato, volti mesti e rassegnati. Il buio  delle stanze e la sua sedia vuota. La zia lo seguì a ruota. Mia madre, dopo la sua morte, dimenticò Sampieri, la amata Scheria della sua fantasia e, nel tempo, anche lei mi lasciò senza un’ultima lacrima.

Vi ritornai l’altro ieri, perché ero a caccia disperata di memorie. Invecchiato, solo. Lo chalet si era trasformato in un sofisticato locale notturno. Al centro della baia non c’era più l’antico fiume. Sulla sua foce insabbiata, un tempo  ricoperta di canne e verde macchia, avevano costruito un villaggio turistico, esclusivo e costoso, là dove Nausicaa, dalle bianche braccia,  evocata dai racconti di mia madre, giocava a palla con le sue compagne. Nessuno aveva  steso per lei nel canneto il suo corredo nuziale aspettando l’Eroe perché il canneto aveva ora ceduto il posto ad un bosco di ombrelloni in fila e di comode brandine.  Mi parve di scorgere Odisseo, infatti, errare al largo, esaurito e confuso, per le acque calme di quello specchio di mare. Anche lui come me, in trappola, non sapeva  riconoscere il suo mitico e necessario approdo. Mi sdraiai, inseguendo le antiche abitudini, aspettando il tramonto su una roccia di Pisciotto e contemplai la baia con rancore. Solo nel mio cuore e nei racconti di mia madre la terra di Nausicaa era rimasta intatta. Custodita a lungo nel magazzino polveroso dei ricordi era  riemersa, per un  attimo di prepotente malinconia e di solitudine. Mi restituiva alle emozioni ed al tempo che marcarono la mia vita e il mio destino in quell’ultima magica stagione felice.

Un Uomo Libero