di Silvana Grasso

Siracusa – Una Medea assolutamente siciliana, quella di Seneca, in scena al Teatro Greco di Siracusa. Una Medea siciliana ed emotivamente “extralarge”, per furore e pathos.
Femmina forte, figlia, per indole, di quel Vulcano che erutta le sue viscere di fuoco oltre ogni preghiera, oltre ogni supplica, di cristiani e animali. Implacabile per quanto generoso. È lui il più forte, lui il più temibile. È lei la più forte, è lei la più temibile. Lei, la sposa tradita, che ha già, nel suo “curriculum” di vergine giovinetta, ucciso un fratello, il piccolo Absirto, e ne ha sparso in mare le insanguinate «membra fatte a pezzi» (“Medea”, Seneca).
È davvero una metafora potente della Sicilia, questa Medea, nel cui mondo emotivo procedono, di pari passo, ma vertiginosamente, amore e odio, delitti e rimpianti. Tutto vissuto, sempre, nella cifra dell’accrescitivo, com’è tipico dell’usus eloquendi siciliano.
In Sicilia una modesta pioggia diventa «acquuuunaa», un pesce di modeste dimensioni diventa un «pisciuuni», un piccolo evento «nacusuuna», un funerale d’un certo seguito «un funiraluni», una signora robusta «narussuna».
È, quindi, connaturata al dna del siciliano la magniloquenza, la rappresentazione gigante del sé, una “sceneggiatura” e “scenografia” dell’ambiente ultradimensionata. La sua grecità innegabile, il suo aition greco, dalla scena del Teatro alla scena della Vita, non dismettono mai, metaforicamente, di indossare i coturni, cioè quei calzari che sollevavano di oltre mezzo metro la statura degli attori in scena, antenati dei moderni trampoli.
Inestinguibile l’odio di Medea come inestinguibile fu, è, l’amore per Giasone, l’empio, il traditore. Poca cosa la morte come pena per un simile delitto, il tradimento «che viva, e corra per città sconosciute, esule, privo di tutto e colmo di terrore, odiato e senza asilo, e me rimpianga come sposa».
Saranno «le sue viscere» a partorire la migliore vendetta, quelle stesse viscere che hanno partorito due figli, frutto d’amore per l’ingrato Giasone «mi ha strappato al padre, alla patria, or mi abbandona in terra straniera… come potrò vendicarmi? Ha una sposa: ecco chi devo colpire».
Ha tradito la Patria e il Padre per Giasone, Medea, per lui ha ucciso il sangue del suo sangue, un fratello «eppure nessuno di quei delitti io l’ho compiuto per odio. L’amore infelice rende crudeli…». Dominus assoluto parrebbe, dunque, quell’amore che non tollera infelicità, status innaturale all’amore medesimo. Quell’infelicità che è sacrosanta legittimazione del delitto. Dei delitti.
Sa fortemente amare e implacabilmente odiare e, come madri moderne, uccide i figli.
La regalità di Medea va molto oltre l’essere figlia d’un re, il re della Colchide, Eeta. È donna intelligente, astuta, creativa, esperta “maga”, abile assai più di quanto non si tollerasse in una donna. Medea è, dunque, un universo di capacità, ingegnerie, strategie, intuizioni, deduzioni, proprio come la Donna della più fiera e nobile tradizione siciliana.
Una siffatta creatura è temibile, persino, per il re Creonte, padre di Creusa, la nuova sposa di Giasone «Tu, macchinatrice dei peggiori crimini, tu che unisci alla perfidia della donna la forza dell’uomo, vattene, purifica il mio regno, portati via le tue erbe velenose, libera dalla paura la mia gente» (Ibidem).
Giasone è umano, debole, vile, non ha pensieri eroici, non compie atti eroici, recita banalmente il consunto rosario della pietas. Ai figli non rinuncia: «Non ho altra ragione di vita, piuttosto potrei fare a meno del respiro, degli arti della vista» (ibidem). Ci piacerebbe moltissimo un padre così intenso, da preferire la mutilazione del proprio corpo alla perdita dei figli, di cui non può fare a meno, se solo non sapessimo che ha già fatto a meno di valori come dignità, gratitudine, lealtà, e contro la sua stessa, salvatrice, benefattrice, sposa. Medea!
I figli «sangue di una madre sventurata» sono dunque «il punto vulnerabile» su cui esercitare vendetta, vendetta non più sacrilega ed esecranda quando «frutto dei delitti è che non vi è più nulla che si consideri delitto». Terribile capolinea.
Morrà Creusa bruciata viva da un inganno di Medea, spacciato per dono di nozze, né varrà a salvarla il padre suo. Non è fuoco comune quello che la uccide, fuoco che possa spegnersi con acqua. L’evento è straordinario «l’acqua dà alimento alle fiamme. Più lo combatti il fuoco, più divampa», muoiono padre e figlia, uniti nella morte dall’ultimo abbraccio.
«Al delitto supremo» si appresta
Medea, sconfessando i piccoli delitti della giovinezza: «Potevano mani inesperte osare qualcosa di grande? Che poteva l’ira d’una fanciulla? Ora io sono Medea. Il mio ingegno è cresciuto col male. È stato splendido sì recidere la testa a mio fratello e squartarne le membra».
Suo consigliere fidato resta solo il furore: «Furore cercati del cibo…il mio cuore selvaggio ha deciso non so che nel suo abisso e ancora non osa confessarlo».
© Riproduzione riservata