di Redazione

Gli intenti con cui ci si deve avvicinare all’opera letteraria devono necessariamente essere diversi. O ci si sofferma sui contenuti nuovi e gli altissimi messaggi che essa vuole arrecarci, oppure si considera l’espressione reale o astratta che essa vuole proiettare nel tempo.
Il De Sanctis chiamava “forma” lo studio dell’opera poetica nella sua interezza. Noi, letterati moderni, amiamo parlare di espressione, linguaggio, stile. Procedere dunque a un’analisi del componimento senza guardarlo nel suo insieme, in tutti i suoi aspetti, prescindendo quasi dal suo stadio finale, cioè dal senso vero del messaggio che il Poeta, sin dal primo verso, voleva trasmettere, è assolutamente impresa impossibile nonché soprattutto inutile.
In questa magnifica composizione si canta l’amore leopardiano. Giovane ed intimo. Impaziente e iperattivo. Fatto di notti insonni, di promesse scucite all’ultimo momento, di ricordi dolorosi e tristi. Un amore Lombardo deturpato. Che non conosce l’opportunità della clonazione bensì la consapevolezza del tradimento. Che resiste all’impossibile e lotta disperatamente per il “certo sicuramente mai”, desunto dalle ragioni e dall’indifferenza dell’Altro (O Giovanni, o Giovanni/ perché non rendi poi/ quel che promettesti allor? Perché di tanto/ inganni noi pe’ figli tuoi?). La delusione s’insinua nell’animo del Nostro come il tormento consapevole di un giocattolo rotto. L’impossibilità di vincere quell’amore paterno, che avrebbe fatto di un’illusione un’occasione felice, da presentimento si fa via via amara certezza. Petrarca è lontano da questo delirio dei sensi come Dante. L’attaccamento al potere qui sfiora i confini del vizio. Inconfessabile. Senza allegoria e luci d’eternità. Nessun simbolismo. Nessuna promessa di ripari escatologici. L’abbattimento finale ha come meta un boulevard (non quello provinciale di viale del Fante bensì, inesorabilmente, quello del definitivo tramonto).
Silvio è la promessa incompiuta di un amore giovane, sopravvissuto finora a tutte le tempeste politiche, condannato inevitabilmente a una fine prematura. Il ricordo non gli appartiene, non gli conviene. La sua memoria labile è uno stato di cui si può dire di un al di là di qua. E’ il risultato tipico dell’amore leopardiano che duplica le cose, le esperienze, mostrando nel tempo una sorprendente “consuetudo revertendi“. Ma la specialità del ritorno non appartiene solo all’irrazionale. E’ tipica delle illusioni degli uomini. Riaffiorano anche dopo cocenti smentite sotto forma di esercizi transumanti e liberi. C’è sempre una finestra, un gabinetto, una scrivania dietro cui l’Ineffabile si cela, trova giusta dimora, insiste come un pensiero dominante per logorare l’insensibilità di chi tiene nervi d’acciaio. La teoria leopardiana dell’amore trova la giusta conferma nella dimensione politica: uomini e cariche sono la stessa cosa perché solo ciò che è potere è ideale e comune.
La lirica conserva i toni appassionati e struggenti, cari sempre al Poeta. Commovente il rimando agli orti (del comune?) ammirati con nostalgia da Donnalucata ed il mare mirato con timore da Jungi. Accenna con discrezione all’effimera pratica e governo di pie opere: ricordi lontani di antiche discendenze galleghe (cavaliere dell’Ordine di San Castiato?). Drammatico il finale. Il fantasma di Aquilino (scelleratamente bruciato nelle competizioni elettorali del 2008) agitato come incubo e l’involarsi dell’uccello: immagini fortemente caratterizzate dalla sopraggiunta e inevitabile decadenza.
Antonio Faraggiano di Montecampagna
Docente di Letteratura Italiana all’Università di Bergamo; poeta, romanziere e critico letterario, curatore della raccolta completa delle poesie del Pascoli, Bucoliche, in edizione critica e commentata.
A Silvio..
Silvio, rimembri ancora
quel giorno della tua vita normale,
quando Incardona non più
splendea negli occhi tuoi
ridenti e fuggitivi,
e tu, lieto e gioioso, il limitar
d’incarichi salivi?
Giravi pe’ le inquiete
stanze, e pe’ le vie d’intorno,
al tuo Onorevole canto,
allor che all’Opra Pia intento
sedevi, assai contento
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era tempo d’elezioni: e tu solevi
così menare il giorno.
Tu gli studi leggiadri talor lasciando
e le mai studiate carte,
ove dell’Avere di Papà tuo
si spendea la miglior parte!!
fin su i balconi del paterno ostello
saliva ratto il suon della tua voce,
e con la manina assai veloce
toccavi il fondo della stretta e ricca parentela.
Miravi il ciel sereno,
da Donnalucata agli orti,
e quinci il mar da Jungi, e quindi il monte.
Ad orecchio mortal non attacca
quel ch’io sentiva
in quell’Opra Pia di Lorenzo Busacca!!
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvio mio!
Quale allor ci apparia
il buon Lombardo e l’autonomia!
Quando sovviemmi di cotante grida,
una lirica soave, una follia,
i facinorosi, i farabutti, i delinquentastri,
e rimembro ancor al Cinema Italia, con nostalgia.
O Giovanni, o Giovanni,
perché non rendi poi
quel che promettesti allor? perché di tanto
inganni noi pe’ i figli tuoi?
E perdevi il fior degli anni tuoi,
e non ti molceva il cor a cercar poltrone,
poi un dolce inganno e Tu, Galizia,
degli sguardi schifati e schivi,
dei tuoi compagni ai dì festivi
cercavi ancor l’Intesa, sì, ma con Malizia!
Anche cadrà fra poco
la speme tua dolce: alla provincia
negheranno i fati la rielezione.
Ahi, ahi, lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’Opra, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
e ci sovvien l’eterno, o sarà forse il vino:
o Silvio, farai la fine di
Pierluigi Aquilino!
All’apparir del vero
tu, in miseria, cadesti: e la tua mano
e la mala sorte e un gabbiano
ignudo, mostravi da lontano.
Socrathe
© Riproduzione riservata