Intervista su La Sicilia
di Elisa Mandarà


Scicli – Il sorriso di Sonia Alvarez ci accoglie sull’uscio, cornice quella persiana bianca affacciata sul giardino, che lascia intravedere la misura più propria dell’artista: l’anima della casa, dove ogni cosa è metafora e correlativo oggettivo di situazioni esistenziali, oltreché estetiche. La bella conversazione che la pittrice ci regala avviene dunque nel suo studio, indagato dal sapiente obiettivo fotografico di Gianni Mania. Origini greche, formazione francese, periodi trascorsi in continenti diversi.
Questa compresenza di geografie diverse pensa si riverberi sulla sua opera?
“Sono interamente greca. Però la famiglia di mia madre si era sistemata a Marsiglia da diverse generazioni; avevano delle fabbriche di olio e di sapone. Mentre quella di mio padre si era stabilita in Russia, a Odessa. Ho studiato presso un’accademia privata, a Marsiglia, perché le figlie di buona famiglia non potevano studiare dove si pensava potesse accadere il peggio. Invece ‘il peggio’ è accaduto fuori e mi sono sposata molto presto, a diciannove anni. Ho seguito mio marito: tre anni in Marocco, dove è nata mia figlia, poi siamo tornati a Parigi, quindi sei anni in Olanda, ancora a Parigi e poi in Argentina”.
Respira un equilibrio sereno da ogni oggetto delle sue composizioni, che ci rimanda alla tradizione splendida fiamminga, e in particolare a Vermeer, uno dei suoi autori più cari.
“Io penso che Vermeer sia l’essenza del miracolo della pittura. I suoi soggetti non sono stravaganti, non ha la tecnica di Caravaggio. Ma possiede il talento, quello che prima si chiamava l’ispirazione”.
Pensa che in questa sua scelta di interni domestici, da lei riportati sulla tela con una eccezionale qualità, abbia inciso la lezione di Veermer?
“Ha inciso più che altro il fatto che io sia stata ‘donna di casa’, che non abbia scelto un mestiere esterno. A me piace molto la casa. Amo le sue luci, i tessuti. Anche perché noi siamo figli della guerra: abbiamo avuto paura e scegliere la casa probabilmente è stato un modo di rassicurarmi. Sa, non è facile guardarsi dentro”.
A questo proposito, ci viene in mente un suo autoritratto. Davvero geniale: lei si è ritratta con un occhio velato, testimoniando dei suoi interessi per la psicanalisi, per la psicologia.
“Facendo un autoritratto tu diventi subito una cosa obbiettiva. Perdi il senso dell’ego, come se dipingessi un vaso di fiori. È chiaro che la nostra cultura include la psicanalisi. Ne ho letto molta, nei miei trent’anni, perché mi ha affascinato. Si può criticare, rifiutare, ma non si può disconoscere questo campo. A un certo punto ho rigettato tutto in blocco”.
Forse è questo l’essere artista: rigettare ogni lettura, a un certo punto, anche i pittori che si sono prima riconosciuti quali maestri propri…
“Certo. Può essere una rivelazione scioccante, un modo di abbassare la pittura un po’, ma per me l’arte è anche sorella dell’artigianato. Noi amiamo pasticciare la materia”.
Fare artigianato, fare la pittura bella, oggi è scelta più coraggiosa, rispetto al lancio del colore sulla tela.
“Se lei parla dell’astratto, io mi chiedo perché la critica non si fissi sufficientemente sul rapporto tra figurazione e astrazione. Non andando lontano, Zuccaro parte dal figurativo e arriva quasi all’astratto, mentre Sacco dipinge deliberatamente qualcosa di astratto e tenta poi di allacciarlo alla figurazione. Sono situazioni opposte. Molti dei pittori contemporanei vogliono appropriarsi del mistero dell’astratto, anche perché amano mistificare, possedere loro le chiavi d’accesso a un’opera”.
Qual è il rapporto col Gruppo di Scicli, un sodalizio estetico, che mantiene ben nette le vostre diverse personalità.
“In fondo pensiamo abbastanza nello stesso modo, anche se non è come un tempo, a causa appunto del tempo, dell’età. Ogni giorno passeggiavamo sulla spiaggia di Sampieri, parlavamo molto, oggi non accade frequentemente”.
Varcando questa porta, un breve corridoio collega fisicamente il suo studio a quello di Piero Guccione…
“Sono trentatre anni che viviamo insieme. Ho preso molto da Piero, non della pittura stessa, ma dei suoi dintorni. Come si lavora, come si lascia un quadro, come lo si riprende. Lo consulto molto, anche per fare il contrario”.
La Sicilia
Foto Gianni Mania
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