All'ombra del Giardino della Colimbetra
di Un Uomo Libero
Connie, di ritorno da Los Angeles, guardò distrattamente la posta e si soffermò invece con più attenzione su una lettera che veniva dalla Sicilia. La teneva stretta nella mano come per volere assorbire i profumi e gli aromi di quella terra lontana. I suoi occhi spontaneamente guardavano al di là del finestrone che dava in un giardino imbiancato di neve, dove uno splendido abete contribuiva a rendere più spettacolare la vigilia di Natale. Il cielo era grigio, fuori la temperatura era molto fredda, proibitiva. La sera si annunciava già accendendo le insegne di una Chicago enorme, dispersiva e anonima. La lettera portava il timbro dell’ufficio postale di Agrigento e una data, il primo dicembre, che testimoniava il lungo viaggio fatto per arrivare fin là.
Connie cercò gli occhiali sullo scrittoio, nella stanza accanto, buttò due piccoli ceppi nel camino e si sedette sulla sua poltrona preferita mentre con cura apriva la busta.
Una donna, Connie, di circa sessant’anni. Curata, sobriamente elegante, di statura media, un paio di occhi verdi leggermente ramati, capelli castani corti. Dimostrava un’età di gran lunga inferiore a quella anagrafica. Professoressa ordinaria di “Archeologia Classica” presso la Chicago University ma anche cattedratica dell’University of Southern California, dove insegnava “Religione e Mito nell’Antichità Classica”, era considerata negli ambienti accademici americani una delle più importanti studiose della civiltà greca. Dopo lunghi soggiorni giovanili vissuti, per specializzarsi, in Italia e in Grecia, tra Atene, Napoli e Roma, divideva ormai la sua vita tra Chicago e Los Angeles, dove da qualche anno era stata nominata membro ordinario del Department of Antiquities Conservation del Getty Museum. Sposata con Jim, un professore di Storia Contemporanea, aveva avuto da lui una figlia, Kate, che aveva scelto più concretamente di fare da grande l’architetto. Lavorava, infatti, in uno studio molto affermato di New York. Dopo il fallimento del matrimonio col marito e l’avvenuto divorzio, Connie non si era più risposata. Viaggiava spesso. Una spola continua tra Chicago e Los Angeles che la obbligava a lunghi periodi di assenza da quella casa, una villetta ereditata dal padre ubicata in uno dei quartieri periferici di Chicago. Vedeva Kate e i suoi due bambini, nell’anno, una volta a Natale e qualche altra volta in estate. Erano comunque sempre occasioni rare, fugaci, nelle quali con molta prudenza evitava di parlare del tempo passato, dei ricordi, di un periodo che era diventato per lei insignificante e vuoto. La sua sensibilità di donna ancora tanto piacente, era stata mortificata da Jim che le aveva preferito una sua coetanea lasciandola, a caldo, senza parole. Si era improvvisamente ritrovata sola, con una ragazzina ancora bisognosa dell’affetto di un padre e con una domanda, sempre la stessa, ossessionante, crudele che la torturava nelle numerose notti d’insonnia. Perché Jim l’aveva fatto? Con gli anni, quella domanda imparò a non farsela più e si tuffò nello studio e nella ricerca storica con un interesse nuovo, ritrovato.
Guardò l’orologio. Erano appena le sei del pomeriggio. Aveva tempo per dedicarlo un poco a se stessa. Kate, con il marito e i bambini, sarebbe arrivata da New York con un volo alle nove. Tutto era pronto. Aveva preparato la cena. I regalini, magistralmente confezionati, li aveva ben disposti sotto un bellissimo albero di Natale, adornato con tanti festoni e luci, collocato in un angolo del grande salone.
Estrasse dalla busta diversi fogli, scritti con una penna stilografica e una calligrafia nervosa, spigolosa, che tradiva le emozioni che li avevano dettati. Lasciò che lentamente la scrittura le riempisse gli occhi mentre la mano tremava imprimendo alla carta vibrazioni inattese.
Connie si era recata nell’agosto di quell’anno in Sicilia, ad Agrigento, per una vacanza studio promossa nell’ambito di un’ambiziosa collaborazione tra la Regione Siciliana e il Getty Museum di Los Angeles. Aveva fatto parte di un team di studiosi impegnato nel selezionare accuratamente i pezzi del museo civico cittadino ritenuti più significativi e meritevoli per mettere a punto negli States una grande mostra sull’arte ellenistico – classica in Sicilia al tempo di Terone. (1)
In quell’occasione aveva conosciuto Calogero, un uomo maturo, sui sessant’anni anche lui o appena di qualche anno più vecchio. Un dio greco, bello come in un’antica scultura. Gli occhi ardenti, il corpo muscoloso e possente, la barba quasi accennata e i capelli sulla fronte ampia ricadenti all’indietro, sulla nuca, in riccioli inquieti.
Lo aveva incontrato per una pura coincidenza nell’alberghetto prenotato dai colleghi siciliani per il gruppo di studiosi americani di cui lei faceva parte. Un hotel de charme. Una casa signorile di campagna, in effetti, situata proprio dentro l’area archeologica e riadattata ad albergo, dalla quale lo sguardo e l’anima potevano senza fatica spaziare dalla Via Sacra ai templi più importanti per catturarne le magiche suggestioni nell’ora misteriosa del tramonto.
Un amore a prima vista, il loro. Aveva riempito le sue giornate siciliane e le aveva regalato delle emozioni intense, quasi giovanili.
Le ritornò alla mente, mentre scorreva quella calligrafia minuta, il primo ballo in occasione della festa allestita proprio nel baglio del suo hotel per il matrimonio della figlia di lui, dove lei era capitata per caso. Ripensò alle sue premurose avances provate da una lunga vedovanza e dalla sensazione assolutamente nuova di una libertà ritrovata non più obbligata dalle memorie e da una paternità responsabile e ingombrante. Rivisitò i giorni di Zingarello mentre lui, sdraiato sulla sabbia al suo fianco, le accarezzava con mano tremante e la pupilla persa il corpo disteso immerso in un’antica luce bianca. Ritrovò, fra le parole di quei fogli, le lacrime versate da Calogero a causa della gelosia della ragazza al ritorno dalla luna di miele: una gelosia folle e morbosa che non voleva il bene del padre. Rivide, infine, il suo volto triste, di uomo impotente e sconfitto, salutarla, in un malinconico addio, mentre la corriera la riportava in un’alba umida e grigia a Palermo per ritornare definitivamente in America. Tutto questo Connie lo aveva vissuto come dentro una fiaba.
Squillò il telefono. Era Jim. Le faceva gli auguri di Natale. Le chiedeva di Kate e dei bambini. Non una parola per lei, non un accenno alla sua vita.
Quando riattaccò, Connie pensò quanto strani e bizzarri dovevano essere gli uomini.
Il primo, Jim, non aveva esitato neppure un attimo a lasciarla senza che lei glielo avesse saputo impedire, l’altro, Calogero, non riusciva a difendere il suo amore e a imporlo a una figlia possessiva e ingrata.
Rilesse ancora una volta la lettera.
“Oggi ad Agrigento c’è molta luce, vorrei che tu fossi qui ad allietare come ultima dea questa valle di uomini antichi, di giganti e di eroi, la mia vita di uomo solo. Il giardino della Kolymbetra(2) si è rivestito dei colori dell’inverno e presto le gemme si apriranno al sole nuovo della primavera ma tu, per allora, dove sarai, splendida e irraggiungibile kore?”
Connie esplose in una risata nervosa, amara, terribile.
-Dove vuoi che stia? – Disse parlandosi addosso. –Qui, come ogni giorno della vita che mi resta, fra i miei libri, i miei ricordi, le mie fantasie e le mie solitudini.-
Sentì i bambini che la cercavano. Kate era arrivata e lei neppure si era accorta della sua presenza, distratta com’era dal ricordo di quel dio greco, prigioniero di un olimpo lontano, che per una sola stagione della vita era stato suo.
-Arrivo fra un attimo. – Gridò alla figlia che la reclamava con insistenza dall’ingresso perché la aiutasse a sistemare i bagagli.
La donna emise un lungo e rassegnato sospiro. Si disfece subito dei fogli della lettera buttandoli fra le fiamme nel camino e li guardò ardere fino a quando divennero leggere lingue di cenere che mute volavano come piume, fino a quando le loro ultime braci riverberarono sul suo viso una dolce penombra.
-Eccomi!- Esclamò, poi, andando incontro a Kate per abbracciarla. –Buon Natale, benvenuta mia cara!-
(1) Terone, della famiglia degli Emmenidi, tiranno di Agrigento, governò la città dal 488 fino al 471 a.C.
(2) Kolymbetra (il giardino della), enorme vasca tra il tempio di Vulcano e dei Dioscuri, fatta scavare da Terone per celebrare la vittoria di Hymera (480 a.C.). Serviva per l’approvvigionamento idrico della città di Agrigento e anche come vivaio di pesci. Nel corso del tempo, già in tarda epoca greca, il grande bacino s’interrò e sul posto fu piantato un magnifico giardino.
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