Pubblichiamo il pezzo apparso su Repubblica l'8 ottobre in ricordo di Piero Guccione
di Stefano Malatesta

Roma – Nella mostra di Piero Guccione del 2008 a Palazzo Reale erano esposte anche numerose immagini del grande pittore. Ma nulla era più illuminante di una fotografia in cui Piero appare di tre quarti, tutto preso dalla sua abituale tremenda concentrazione, servendosi di un righello e di un pastello. Non ho mai conosciuto nessun altro artista che fosse così pittore dalla testa ai piedi, come per dire per tutta la lunghezza della tuta, che Piero indossava sempre quando dipingeva, come il Papa indossa sempre i paramenti sacri. Nell’ultimo secolo, come sappiamo, c’è stata parecchia confusione sui termini arte e artista e, per evitare equivoci, qui bisogna intendersi con chi abbiamo a che fare. Guccione non è stato un tipo di artista come Twombly, che premeva la punta della matita sulla carta per vedere dove il caso portava i suoi schiribizzi. Non è mai stato un artista pop come Andy Warhol, che ripete centinaia di volte la faccia di Marylin Monroe o di Liz Taylor.
Non è mai stato ossessionato da quell’obbligo per gli artisti moderni di citare film, stampe, fotografie, televisioni altrimenti si sentono di far parte della retroguardia. Non ha mai pensato di essere un diagnostico della cultura di massa. Guccione era un creatore di grandi mondi, come erano una volta i grandi pittori della tradizione. La tradizione andava rispettata, ma nello stesso tempo lo sforzo dell’artista era quello di superarla, altrimenti sarebbe stato solo un imitatore. Così tranquillo e sicuro di se’, è appartenuto a un modo diverso da quello della pubblicità e della sorpresa come valore estetico. Era trascinato dall’istinto che lo portava ogni volta ad attraversare la terra di nessuno. Uno dei grandi meriti di Piero è stato quello di aver iniettato nuova vita a un genere di pittura in agonia da più di cent’anni: il paesaggio. Questo genere sembrava finito, con i quadri di Braque gli ultimi bagliori di una pittura caduta in disuso. Piero ha rinnovato questo genere del landscape, ha ottenuto questo straordinario risultato adoperando un mezzo che sembrava pesante, il pastello ad olio, in modo da rendere leggere come una mongolfiera o come un aliante tutte le cose che dipingeva. Le sue opere, nelle mani di un altro pittore se avesse usato il pastello, sarebbero sprofondate dal peso specifico della materia. Nei quadri di Guccione invece la materia del pastello si apre lasciando penetrare la luce; si disintegrava e si ricomponeva in un ciclo che sembrava non avere fine.
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