Cultura
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26/03/2013 14:56

Stephen Tobriner: Rosario Gagliardi, l’uomo che inventò il Val di Noto

Tobriner, il maggiore esperto al mondo di barocco

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Tobriner: Io, Rosario e il barocco
Tobriner: Io, Rosario e il barocco

Noto – Nel giorno in cui Stephen Tobriner torna a Noto, dalle carte dell’Archivio di Stato della città netina, emerge, dal nulla, il testamento di Rosario Gagliardi, l’archistar che nel Settecento inventò il Val di Noto, ricostruendo città e chiese nella fase post terremoto del 1693.

Il 23 marzo, a Noto, sono stati celebrati i 250 anni dalla morte di Gagliardi (con una incertezza se vada datata tra il 1762 e il 1763) A lui è dedicata la mostra appena inaugurata al Convento dei Gesuiti di Noto (a cura di Marco Rosario Nobile e Maria Mercedes Pares, promossa dall’assessorato regionale ai Beni culturali, aperta sino al 21 giugno).

 

Tobriner, docente emerito di architettura all’Università di Berkeley, in California, è il maggiore esperto al mondo di barocco.

E ha partecipato ai lavori del convegno organizzato dall’assessore alla cultura del Comune Costanza Messina. 

 

Gagliardi. Nato a Siracusa intorno all’ultimo decennio del Seicento, trasferitosi a Noto probabilmente con il padre falegname negli anni in cui più intensa era l’attività costruttiva per la nuova città che sostituiva, in un nuovo sito, quella distrutta dal terremoto del 1693, Gagliardi continua a presentare per gli storici diversi lati oscuri: l’educazione nella bottega paterna (“faber lignarius”) non spiega le audacie costruttive e formali delle sue opere, e mancano i gradini che collegano le origini artigiane alla protezione accordatagli dagli ordini religiosi e dalla aristocrazia della Sicilia orientale.

Un salto sociale che deve avere suscitato non poche invidie nell’ambiente locale se alcuni documenti (ma forse con voluta ambiguità ci si riferisce alla mancata padronanza del latino) lo indicano addirittura come analfabeta.

Analfabeta il regista di Noto barocca?

Difficile da credere, e non soltanto perché firma alcuni disegni ma soprattutto per la complessità strutturale di molti suoi edifici e per la capacità di rielaborare, in pianta e in alzato, alcuni dei nodi fondamentali dell’architettura religiosa del Seicento barocco: la commistione tra spazio longitudinale e pianta ellittica, l’importanza della luce nel modulare gli interni con forte tensione chiaroscurale, la reinvenzione di quelle facciate turriformi, svettanti in verticale e culminanti con l’apertura della loggia campanaria che rimane la sua sigla spettacolare, il segno inconfondibile impresso ai centri ricostruiti del Val di Noto.

 

Gagliardi si muove con sicurezza sorprendente tra tutti questi motivi: forse gli fornisce la sponda l’opera e la trattatistica dell’architetto e religioso trapanese Giovanni Biagio Amico, forse rielabora autonomamente le suggestioni delle chiese di Borromini e degli impianti gesuiti, forse — ed è l’ipotesi più suggestiva — i brevi anni in cui la Sicilia è territorio austriaco gli facilitano, attraverso stampe e disegni, la conoscenza dei modelli dell’architettura centroeuropea.

Ma a queste indicazioni Gagliardi aggiunge il carattere teatrale della scena urbana che regola la ricostruzione della Sicilia orientale e il colore della pietra degli Iblei.

I disegni che costituiscono il nucleo centrale della mostra, alcuni dei quali redatti sui modelli della trattatistica tardo rinascimentale, non possono infatti restituire l’enfasi scenografica esaltata dalle differenze di quote sfruttate dall’impianto a griglia della nuova Noto, né quella particolarità di intaglio del materiale lapideo che rappresenta, nell’invenzione ornamentale a opera delle maestranze locali, una componente fondamentale dei cantieri dei centri orientali. Gagliardi, infatti, concepisce la facciate di chiese e monasteri come quinte dell’intero spazio urbano, alte su ampie gradinate spezzate a serpentina come la chiesa di San Domenico a Noto, dilatate in orizzontale ad accompagnare il rettilineo della via sottostante come nella Chiesa Madre della stessa città, innalzate come la velatura gonfiata dal vento di una nave in pietra in occasione di uno dei capolavori di tutto il barocco siciliano, la chiesa di San Giorgio a Ibla, tesa e rinserrata nella convessità centrale dalla progressione delle colonne laterali.

Una teatralità insieme coltissima e popolare a cui concorrono la moltiplicazione dei punti di osservazione, i ritmi curvilinei degli edifici e il disegno di cornici, fregi e capitelli mosso sino alla bizzarria.

Questo panorama solenne doveva apparire, alla popolazione del tempo spostata nella nuova città dai vecchi abitati contadini, insieme sorprendente e familiare. L’universo formale barocco si era diffuso ampiamente attraverso tabernacoli, fercoli, reliquiari, spesso realizzati con quella tecnica di assemblaggio e intaglio ligneo che Gagliardi padroneggiava, e che nel corso del Settecento diventava in questo angolo di Sicilia facies urbana, assecondando tanto le esigenze politiche e militari quanto quelle di rappresentanza di aristocrazia e clero. Eppure questa lunga e complessa ricostruzione era, sotto il profilo della storia delle forme, una operazione anacronistica poiché prolungava il tardo barocco non soltanto nel secolo del neoclassicismo ma ancora oltre, sino all’Ottocento. È stato probabilmente questo sentore di artificio a suggerire a Michelangelo Antonioni di girarvi alcune scene de “L’avventura”: come un teatro troppo vuoto, la città disegnata dal Duca di Camastra e dall’ingegnere militare Carlos de Grunembergh, allestita da Gagliardi e dai suoi seguaci Labisi e Sinatra, gli apparve il set ideale per il racconto che al suo centro ha una l’incantesimo di una sparizione.

 

 

 

Foto di Luigi Nifosì. Tutti i diritti riservati.