Venti anni fa, quando la Virtus Banca Agricola Popolare di Ragusa giocava al Palazama
di Saro Distefano


Ragusa – A proposito del mio articolo sul buffet e quanto si scatena in quelle occasioni. Letto quell’articolo, il mio amico Enzo mi ha chiamato per confidarmi che condivideva totalmente quanto scritto a proposito del fatto che davanti ad un buffet ci trasformiamo, molti se non tutti, in belve feroci alla disperata ricerca del cibo.
“E’ proprio così – mi ha riferito l’amico – tant’è che nei ricevimenti con buffet io rimango sistematicamente morto di fame oppure debbo accontentarmi degli avanzi, quelli lasciati dagli altri convitati per manifesta sazietà e non certo per pietà verso i deboli come me. Quello del buffet è stato uno dei due principali shock della mia vita da adulto.”
Ovviamente ho chiesto all’amico quale fosse stato l’altro dei due shock della sua vita. E così mi ha raccontato un fatto che adesso riferisco, e che mi ha fatto venire in mente episodi vissuti anche da me, e che avevo dimenticato.
Enzo mi ha raccontato di quando, e adesso sono passati quasi venti anni, la Virtus Banca Agricola Popolare di Ragusa giocava al Palazama, storico palazzetto dello sport dedicato alla pallacanestro (sport che nel capoluogo ha vissuto pagine gloriose oggi purtroppo semi-dimenticate, se non fosse per la Passalacqua che gioca nella Serie A2 femminile con ottime possibilità di promozione).
“Era l’anno in cui tutti i ragusani andavano al palazzetto, la domenica pomeriggio, perché la Virtus aveva allestito una formazione davvero fortissima, senza rivali nel campionato di serie B d’Eccellenza, che si voleva vincere a tutti i costi per approdare finalmente nella tanto agognata serie A. Erano, quelle, domeniche particolari. Ogni quindici giorni non si trovava parcheggio, già alle cinque del pomeriggio, fino alla via Di Vittorio. Al Palazama si entrava, ufficialmente, in mille. Ma sappiamo tutti che in certe partite si era in duemila. Del resto, c’era da sostenere la squadra. Due sole tribune. La “A”, con biglietti più cari, e poltrone numerate; la “B” con biglietti economici e posti non numerati, con talmente tanta gente da dover vedere la partita praticamente sempre in piedi. E poi due tribunette con poche decine di posti su tubi innocenti miracolosamente in piedi nonostante l’agitazione, notevole, dei ragazzini che erano anche i più vicini al campo di gioco. Quando, a metà campionato circa, la Virtus Popolare era al comando della classifica in condominio con i sempre “odiati” cugini del Trapani, si giocava al Palazama una partita con un avversario di livello, venni finalmente convinto da mia figlia a vedere la partita. Per me la prima volta. Alle cinque eravamo dentro lo stadietto, e tamburi, trombe e fischi, grida e baccano infernale iniziarono quando gli atleti cominciarono il riscaldamento. Un inaudito livello di decibel quando la coppia arbitrale diede inizio alla gara con la “palla in due”. La Virtus era fortissima, e lo capivo anche io ma gli avversari non mollavano. Fatto sta che la partita era sempre punto a punto, e si era già alla fine del terzo tempo. Al quarto tempo gli arbitri – che reputo, poveretti, in totale buona fede – iniziarono a fischiare qualche fallo di troppo a Peppe Cassì, vero idolo locale, e mi pare anche al nostro pivot, Mallamace. I due finiscono in panchina, per non rischiare il quinto fallo. Ma la squadra si innervosisce, comincia a sbagliare in attacco e fare troppi falli in difesa. Gli avversari recuperano e addirittura passano in vantaggio. Quando mancano un paio di minuti alla fine della partita le cose si erano messe davvero molto male per i biancazzurri. Ed è stato a quel punto che ho subìto lo shock di cui dicevo.” Ride, adesso, il mio amico Enzo. Perché sa che adesso mi racconterà cose che io avevo visto, perché ero la. “Ho visto delle gentili signore ragusane, quelle con addosso il meglio dell’hautecouture e della cosmesi moderna, rivolgere agli arbitri delle frasi che non avevo sentito nemmeno nella peggiore caserma di Taranto quand’ero al CAR. E poi ho visto maturi signori lanciarsi, letteralmente lanciarsi verso le transenne (inutili, seppure di acciaio, perché basse e soprattutto a pochi centimetri dagli atleti avversari e soprattutto dai poveri arbitri) per riferire da molto vicino il proprio pensiero in merito alle decisioni arbitrali. Pensieri irriferibili, gesti minacciosissimi, facce da braveheart, qualche ombrello che volteggiava. Già questo mi sarebbe bastato. Ma quando, focalizzando meglio, riuscii a individuare alcuni dei soggetti più esagitati, e ricostruita la loro storia sociale e professionale, ebbi veramente uno shock. Mi resi conto che aveva ragione quell’antico saggio che riteneva la tavola e il campo da gioco i terreni dove l’uomo esce al naturale. La Virtus, quell’anno, vinse il campionato e andò in Serie A, ma io le partite continuai a sentirle alla radio.”
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