Cultura
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25/09/2008 20:44

Tumore, medico, paziente. Quando la disperazione diventa coraggio di vivere

di Redazione

Quando sopraggiunge, una malattia neoplastica coglie inevitabilmente di sorpresa. Condiziona e sconvolge tutta la famiglia, come una casa dove arriva un ospite inatteso, sgradito.

In quel momento le ansie e le domande si moltiplicano.

Spesse volte – nelle disfunzioni del rapporto tra medico e paziente – è difficile stabilire chi è il paziente e chi il medico. Non so se tutte e due guariscono dai loro cancri, ma spesso è il paziente, con la sensibilità della condizione, a sorreggere il medico. Quando, poi, le divinità in camice bianco ti voltano le spalle e, per tranquillizzare loro stessi, pongono dei limiti alla tua vita con il tono vendicativo di chi non è con te: tagliano cinicamente il ponte della speranza tra la terra della vita e la terra della morte. In una patologia ad alto rischio è troppo facile previsione!

Ma non ci sono malattie incurabili.

I medici tendono ad essere troppo rigidi, logici, legati alle statistiche e sono meno inclini alla speranza dei loro pazienti stessi. Rappresentano il muro del privilegio dei sani. Se non hanno più medicine dicono: “Non ho la bacchetta magica, per sua moglie non c’é più niente da fare”.


Rimane sempre qualcosa da fare.

Così: dopo 19 cicli di chemioterapia, sei di recalcificante, e mesi di radiazioni in tre diversi distretti scheletrici – alcune volte con il sospetto di avere a che fare con pratiche più dannose che utili – Michelina viene mandata a morire a casa. Nel romitaggio domestico, allettata.
Lo sconforto durava da oltre due anni. I tanti luminari dell’oncologia consultati sentenziavano in vario modo la fine vicina; il curante, infastidito, latitava. Michelina era stata vittima inconsapevole di sperimentazioni e ricerche scientifiche, ma a questo punto, abbandonata, intraprende un entusiasmante braccio di ferro con il male del quale lei ha totale consapevolezza. Convinta di lottare da sola, perché è la solitudine che caratterizza questa malattia.
In questo confronto, dall’esito predeterminato, alla sua forza si unisce quella del CAMO (Centro d’Aiuto Malato Oncologico). Da quel momento, con l’assidua frequenza domiciliare di una  oncologa, responsabile della struttura, si riaccende una luce di speranza. Insieme non curano la malattia – evidenziata dai medici e dalla diagnostica -, né il male – percepito da Michelina -, ma Michelina stessa come persona nella totalità del suo equilibrio, con una complicità che ha avuto un alto grado d’umanità. Quindi meno concezione meccanicistica della cura e più capacità di affrontare la realtà nella nostra impotenza; due aspetti cementati da un vincolo di fiducia fondato sulla conoscenza e l’accettazione da parte del medico delle credenze consce e inconsce dell’ammalata.


La dott.ssa non le ha mai detto quanto le rimaneva da vivere; le ha suggerito, bensì, come utilizzare le personali risorse per aiutarla a vivere. Ha curato e lavorato insieme con Michelina per una vita migliore e più lunga, le ha concesso di essere l’eccezione alle statistiche, non l’ha identificata con il tumore perché sapeva che era molto più di quello, non ha offeso la sua dignità e la sua lucida intelligenza.
Gli operatori e i volontari del CAMO hanno insegnato a noi a convivere con la sofferenza; prestato attenzione quando ne abbiamo avuto bisogno, rendendoci liberi di chiedere; avuto la pazienza di ascoltare, manifestando gran rispetto.

La pregiata affabilità dell’infermiera, l’imbarazzante disponibilità dell’addetto ai presidi sanitari, uniti alle professionalità della psicoterapeuta, hanno sviluppato un rapporto ricco e profondo; hanno dato, agli ultimi due anni di vita di Michelina, un significato unico e irripetibile, trasformando – in tutti noi – la disperazione in coraggio di vivere.

Firenze, febbraio 1999                                                            Ellj Nolbia

Le immagini sono “Rivisitazioni di Botticelli”, sanguigna su carta da spolvero, di Ellj Nolbia