Cultura
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05/05/2008 20:36

Tzuù Vanninu, l’omino sulle due ruote dell’anticavallo

di Redazione

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Tempo fa, una frase e la curiosità mi portarono una notte – come in un sogno –  ad esplorare l’archivio di personaggi eroici dello sport. Mi calai in quello sparuto elenco, alla ricerca delle radici autentiche di quella straordinaria passione popolare che è stato (per tanti versi lo è tuttora) il ciclismo dei giganti della strada, quella che ha alimentato tante leggende letterarie.

      Matteo Boiardo e Ludovico Ariosto hanno cantato – tra incanti e disincanti – le gesta degli atleti del loro tempo, cavalieri e non ciclisti. Le affascinanti vicende narrate, le storiche tenzoni tra gli eroi pedalatori, con sobri, gustosi e pertinenti episodi autobiografici che ricordano il tempo delle origini a quello del ciclismo a noi più vicino. 

      Intento di questo brano, è legare lo sport alla storia. Il mito alla realtà e far rivivere quello spirito di felice avventura che spinse uomini coraggiosi, ad affrontare corse massacranti su strade impossibili e fra inaudite tribolazioni per divenire: idoli osannati dalle folle (nella foto a sinistra, Fasi di gara, lungo la strada sterrata da Scicli a Pozzallo).

      Se ricordare è vivere – come scriveva Bruno Raschi – noi tutti confidiamo che il ciclismo tornerà a vivere giorni travolgenti attraverso i volti e le gesta dei ciclisti eroici.

      Il richiamo al passato, al ciclismo che fu, eroico nei presupposti e nelle risultanze – la fatica sconciante non toglieva il sorriso a quegli uomini rudi che chiedevano alla bici il riscatto dalla miseria – ha suggerito le pagine di questo scritto.

      Il desiderio di sapere mi ha poi portato a scoprire le strade bianche e lo spirito di sacrificio su cui si fonda l’Eroico ciclismo che, ad appena due lustri di vita, è la mamma dell’evento per quei forzati del pedale è l’essenza del ciclismo stesso. Non si parlerà – in queste brevi note – dei miti della storia di questo sport, quanto di chi nella storia eccellente non trova posto, ma che comunque una storia, allo stesso modo, ha contribuito a scriverla. 

      pedala  pedala        e va su           pedala  pedala 

      La storia aristocratica del ciclismo – ormai più volte scritta e nota – ha avuto splendore lontano da Scicli. Forse in questo posto, solo una vita parallela, sull’eco delle imprese che altrove si vivevano infiammando di passione le strade che ribollivano della febbre dell’ardimento e del frenetico tifo. Quelle eroiche gesta, a Scicli venivano solo ascoltate alla radio in misteriose intime stanze o lette sulle pagine dei giornali, da sparuti gruppi di appassionati. Ma credo anche molto immaginate e forse anche, quelle gesta, riscritte con la fervida capacità narrativa della gente del posto, che da sempre adora esagerare. Però, in epoche coeve alle imprese delle figure simbolo di questo sport, in quel lembo di Sicilia – al tempo arcaica nei modi e nei pensieri in un ambiente difficile e indifferente insieme -, un omino su due ruote, secco e scuro come ‘nu tizzuni, cocciuto, agendo contro ogni pregiudizio e necessità imposta dalla povertà del dopoguerra, pedalava beandosi della propria passione, saltellando sui pedali di una bici della prima origine, con la sola spinta del battito del suo stesso cuore.

      Sin da bambino aveva un debole per le imprese spericolate e le sfide impossibili. Subito dopo l’ultima guerra, chi pensava – nel pieno delle necessità primarie – di inforcare una bicicletta e cercare di rincorrere l’amaro disincanto. Chissà quanti contrasti e quante volte il mormorio guidato da parole come: sfacinnatu. Pedalare contro il volere di tutti e contro vento per farsi levigare gli spigoli delle sofferenze e dalle privazioni e imporsi una finta allegria con il solo scopo di sopravvivere.

      Questo è Giovanni Raffoni, da Scicli 

      pedala  pedala        e va su           pedala  pedala 

      Prima della metà del Novecento, in quella periferia geografica, era quasi scontato che i figli facessero la stessa professione dei padri. Sia che si trattasse di coltivare la terra, sia che si trattasse di imparare un mestiere in bottega. Alcuni si ribellavano a qualsiasi ereditarietà dell’attività. Vanninu, capisce di avere una grande passione e per procurarsi i soldi per acquistare una bici da corsa, deve lavorare un anno come manovale alla realizzazione di strade. Le stesse strade che per anni – tra imprecazioni di fatica e sudore impastato di sterro – ha pedalato con irrefrenabile passione. Quelle strade, che poi pedalerà per il resto della vita, le ha accarezzate e lisciate strato su strato, ne conosce ogni rugosità, ogni respiro nascosto.

     Per noi il pedalare è la sfida in più nella ricerca – senza scorciatoie – dell’anima dello sport in bicicletta: una disciplina naturale e spontanea, come il senso di libertà che la bicicletta consegna a chiunque decida di cavalcarla. La bicicletta è la trascrizione dell’energia in equilibrio, l’esaltazione dello slancio, l’immagine visibile del vento. 

      Vanninu, caparbiamente pestando sui pedali, cantava la sua tristura inseguendo la voce del vento che, dalla valle della biviratura di San Nicola, saliva neniando verso l’asperità della Balata. Saliva, saliva con gli occhi gonfi come pesche tabacchiere, che stanchi di lacrime di velocità, fissavano il cielo in attesa di un segnale misterioso. Le mani, strette a pugno sulle manopole dei freni, tiravano per favorire la spinta delle gambe. La testa beccheggiava accompagnando e favorendo il ritmo dello sprone sui pedali. La saliva pastosa come miele amaro appena strizzato dalla cera, il sudore nero e appiccicoso più del catrame.

      Saliva, saliva.

      In cima si fermò per ricercare un residuo di fiato in un angolo recondito dei polmoni, senza mettere parola. Il cuore batteva come una mandria a galoppo tra sobbalzi e ripetizioni che andavano oltre il consentito.

      Si sfregò le orbite con le nocche delle dita e la vista peggiorò. Vedeva i muri e i carrubi come fossero di vetro, li penetrava con lo sguardo e andava di là, trapassando l’anima prosciugata dalla materia. Quando il sangue serve per alimentare lo sforzo, va via anche dal cervello. Vanninu ci metteva il sudore, la fatica e l’amore, e il destino ci metteva le sorprese.

      E in fondo vedeva il solito sogno in bici da bambino.  

      pedala  pedala        e va su           pedala  pedala 

       Asciutto di corpo e deciso nei modi, per propria schiettezza. Con l’aria di una volpe un po’ irrequieta. Della volpe ha il muso affilato, le orecchie dritte, gli occhi vivacissimi. Tzù Vanninù l’ho conosciuto con i piedi per “terra” – noi ciclisti per mestiere, battezzati da una ribelle passione, spesso ci incontriamo sospesi per aria -, una giornata di discussioni di tanti anni addietro, credo 25. Sé…sé…sé… ncà loggicu, in piedi sulle nervose gambe, passando il proprio peso da una all’altra, roteando la mano aperta sull’asse dell’avambraccio, e nel parlare spingere in su le spalle per sottolineare il peso delle parole.

      A comprendere e condividere il suo pensiero, si toglieva il cuore e te lo metteva in mano. Generoso nei consigli e traboccante di aneddoti. Così sono i ciclisti autentici, ogni giro di ruota, una storia da raccontare!

      L’ho conosciuto vincente. L’ho visto pedalare di forza e di cuore, su biciclette sempre espressione della massima tecnologia. 

      La passione per la bici gli nasce quando a 16 anni, nella categoria “Indipendenti”, con le sue sole forze organizzative, partecipa alle competizioni. Già altrove esistevano  – specie nei territori da sempre votati a questo sport – squadre organizzate, quasi tutte sostenute da ditte che producevano biciclette. Come Indipendente, avrebbe potuto partecipare ai grandi Giri o alle classiche, ma immaginate quella epoca, e Scicli a quella epoca, ancora con gli aggrottati a Chiafura e il difficile risveglio, dopo i disagi e il torpore della guerra. 

      Quelli dell’esordio di Vanninu, erano anni del ciclismo eroico, di Coppi e Bartali, ma soprattutto di uomini che per praticare sport di fatica a “livelli minori” dovevano impegnarsi e fare degli sforzi commoventi.

      Delle sue partecipazioni alle competizioni, non tanto i risultati sono da evidenziare, quanto le difficoltà logistico-organizzative tra le quali doveva districarsi. Per esempio, per gli spostamenti più vicini, Vanninu veniva trasportato da un amico su un motorino, con la bici da corsa da 14 kg in spalla. Un’immagine che è diventata per tutti il simbolo della solidarietà, della passione condivisa, anche se con ruolo differente.

      Per altre gare – quando non trovava quella comodità – utilizzava invece la bicicletta stessa, obbligato così a dei “riscaldamenti” forzati e prolungati che certo non favorivano le prestazioni in gara. Andava in bicicletta fino in provincia di Catania, addirittura fino a Zafferana Etnea, partendo il giorno prima della gara, con tubolari ad intrecciare le braccia come corde di uno zaino. La sera dormiva – se trovava ospitalità – da qualche appassionato, oppure alla stazione ferroviaria, se la ferrovia in quel luogo passava, oppure ancora in ripari di fortuna! La mattina cambiava i tubolari alle ruote per mettere quelli che utilizzava solo per la gara. Dopo la gara ricambiava le copertura e ancora di corsa. Un’altra corsa senza numero né classifica, solo utile verso Scicli. Per tornare a casa.  

      pedala  pedala        e va su           pedala  pedala 

      L’ho incontrato in bicicletta un mattino di fine estate dello scorso anno. Le nuvole se ne stavano appese in cielo a dondolare come fiocchi da lutto nei portoni antichi e un sole rachitico iniziava a caliare le pietre del litorale. Lungo la litoranea, i variopinti gruppi di ciclisti passavano lesti, e Vanninu non accettava più la provocazione della sfida. Ad incontrarlo, lo si riconosce da lontano. Sembra uno stoppino già usato, filiforme – qualcuno direbbe senza stomucu né vuredda – mille grinze a nobilitare il viso, ogni piega un avvenimento di cui parlare, un’avventura da far rivivere.  Colmo di vicende e di saggezza, pregio tipico degli anziani.

      Il fisico è modellato dalla consuetudine del gesto, per la sua posizione adagiata sull’attrezzo: si riconosce anche tra tanti. Sembra una materia senza ossa che si adatta alla bici come controforma, scaricando il peso su quei cinque appoggi e visto da dietro, sembra ancora un ragazzino, ha tutto adatto a questo sport: bacino piccolo, gambe lunghe, struttura minuta, niente in più di quanto serve al rendimento. Chi da tanto tempo pratica questo sport, fisicamente si conforma secondo le necessità del pedalare con pregi e difetti dello stesso. Si diventa come un vestito vecchio, di quelli indossati per tanto tempo, che assume la conformazione delle stesse nostre deformità.

      La pedalata ormai spezzata – un tempo fluida – lo accompagna ancora nelle sue girate frequenti, ormai senza agonismo dichiarato. Nella nostra provincia tutti i ciclisti lo conoscono e lo salutano come un venerabile. Uomo di gran cuore e di inarrivabile schiettezza, semplice nel senso più alto del termine, profondamente amato per la sua purezza.

      O Tzuù Vanninu tutti i ciclisti di Scicli devono tanto. Senza la sua primigenia passione, molto ciclismo locale avrebbe avuto storia diversa e magari … altre strade da pedalare. Ha mantenuto e trasmesso la passione sia al figlio – buon corridore –  che ha militato in tutele categorie giovanissimi, fino a quella Dilettanti. Addirittura la passione si è trasferita anche al nipote.

      Questa è la legge dello sport e della vita. Un figlio si sostituisce al padre e poi ancora nel succedersi delle parti, un altro figlio al suo padre, già prima figlio. In una continuità e consanguineità entusiasmante. Lo sport agonistico non vive, non può vivere, di allori avvizziti. 

      Tzuù Vanninu, oggi pedala con gioia e in buona salute verso gli ottanta anni.

      Gli auguro di cuore tanti altri chilometri, tanti giri lesti delle sue vispe gambe. 

                                                                                                            Ellj Nolbia

 

 

Nella foto in alto, Partenza di una gara da via F.M. Penna a Scicli. Si riconosce la sede della Società sportiva di Scicli, di fianco all’odierno “Caffè Letterario”

 

 

 

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