di Redazione


Perchè quella scuola è senza senso
Innanzitutto, voglio ringraziare quanti – a vario modo – hanno commentato lo scritto “Per una città a bassa velocità” pubblicato quest’ultimo giorno 13. Non voglio rispondere nello specifico personale, ma dentro questo scritto, nell’articolarsi dei pensieri, cercherò di farlo.
Una preoccupazione.
L’ampia, imprevedibile e anonima utenza di questo sito, mi imbarazza per un motivo semplice. Interloquisco, generalmente, con un uditorio disciplinarmente dedicato, quindi sono quasi certo della comprensione di ogni dire, per la condivisione di interessi e di una “lingua” comune. Dello stesso convincimento, in questo sito, non ne sono certo. Cercherò di essere quanto più divulgativo e chiaro possibile.
Un avvertimento
Chi si aspetta da questo intervento, la descrizione di una proposta di progetto, avrà una delusione! Problematizzerò il tema, senza darne soluzione chiara. Non è questo il veicolo idoneo e non ritengo adatto ed equo il tipo di comunicazione. Però vi posso assicurare “la cura” esiste: rispettosa dello stato dei luoghi, che strizza l’occhio al futuro, senza offendere il passato.
Comunque, volentieri contribuisco ad un dibattito da tempo acceso a Scicli e che ha avuto periodici rinfocolamenti nel tempo lungo del suo esistere. Con piacere sento, cambiano le generazioni, ma il percepire dell’intruso: si avverte ancora vivo.
Piazza Italia, probabile fine anni Cinquanta allegato al bando del concorso del 1981 |
Per trattare e cercare di capire il perché del manufatto in piazza, tra gli strumenti di analisi, in primis utilizzeremo le fonti storiche (archivistiche-fotografiche, ecc), perchè utili e indispensabili per la comprensione dello stato dei luoghi.
Nella comprensione del luogo (sito + la storia degli atti umani) il “senso” costituisce carattere fondativo ed insostituibile elemento di progetto. Ogni luogo, è portatore di “senso” proprio. “Ogni luogo ha un’anima” (J. Hillman, 2004). Ogni città ha un suo odore, una sua tonica, una sua luce, una sua temperatura ecc, che la caratterizzano e la identifica inequivocabilmente. In questo caso, per senso, non mi riferisco solo ai 5 sensi noti, quanto alla capacità – individuale e strettamente riferita alle facoltà percettive proprie – di saper leggere e trovare, come elementi progettuali e non solo come teorie, il senso della storia, il senso del luogo, il senso della forma.
Di seguito, una sintetica declinazione del valore del “senso”.
Il senso della storia
Senza sentire la necessità di esso, non esiste la cultura della città, né alcuna possibilità di pro-gettare: perché ci verrebbero meno le origini e le radici, ma anche le motivazioni, dalle quali muoversi e alle quali affidarsi.
La Storia è una grande sconfinata narrazione, una sorprendente registrazione delle vicende umane e siamo certi che con la propria lezione ci possa far scorgere anche qualcosa per il futuro …..
Osservare le città attraverso la lente della Storia, fa assumere alle città una densità di significati che va oltre la sua fisicità.
Tanto che per noi architetti – abituati a misurare le dimensioni e gli oggetti – la Storia potrebbe essere ricordata come la misura del tempo, la sua stessa dimensione che prende forma.
(Pasquale Bellia: dal ppt delle lezioni del Laborat. di Progettaz. Urbanistica)
Il senso del luogo
Il panorama architettonico contemporaneo, ci fornisce in gran parte immagini di frammentazione dei singoli episodi edilizi, in una generale indifferenza alle ragioni dei luoghi.
Il progetto deve diventare strumento di precisazione, valutazione delle differenze, prefigurando nuovi programmi, entrando con essi a far parte della Storia dei Luoghi.
Si potranno scorgere “tensioni sotterranee”, individuare le tracce di qualcuno che è passato ad “incidere” sul luogo i suoi pensieri, ma soprattutto a proiettare un significato su un’assenza.
Il progetto trova le proprie ragioni nell’interpretazione del significato dei luoghi, in ciò che essi rappresentano attraverso i propri valori morfologici, ma anche in ciò che essi rappresentano rispetto ad una collettività che in essi deve riconoscersi.
Tra il luogo e il progetto si instaura un rapporto di modificazione, ma anche e soprattutto di “conformazione”. Il progetto è sempre comunque la trasformazione di ciò che esiste da prima. Il luogo ha già una sua forma è ha dato una risposta, quindi tecnicamente e teoricamente è il progetto che si conforma a luogo. Ma in questo incontro, si modifica sia il luogo che il progetto.
La conoscenza del luogo, la sua descrizione è parte integrante del percorso progettuale. La modificazione proposta è tanto più significativa tanto più capace di cogliere il valore dei dati e degli elementi, delle forme del luogo stesso e trascriverli in ipotesi ove preesistenze e nuove reinterpretazioni definiscano relazioni interessanti ed essenziali, elementi fondamentali della storia più generale del luogo.
(Pasquale Bellia: dal ppt delle lezioni del Laborat. di Progettaz. Urbanistica)
Il senso della forma
Ogni autentica conoscenza implica una percezione che possiamo definire “gestaltica”: ossia strutturata, autonomamente configurata, non atomistica: questo è uno dei principali postulati di quella teoria psicologica e filosofica – la teoria della Gestalt o “teoria della forma” su cui è impostato il pensiero di R. Arnheim (1994).
Sebbene la forma è la configurazione visibile del contenuto (ben inteso, non nei termini fissati dal funzionalismo), secondo Louis Kahn, la forma esiste prima di ogni azione progettuale, la forma è nella mente, e l’architetto la trasforma in materia architettonica.
La progettazione parte da un’idea figurale, attraverso codici figurativi, per poi trovare verifiche e relazioni in altre campi disciplinari e teorici, fino a verificare – nel definire il progetto – ogni intuizione nella misura di tutti i “sensi” che il luogo per sua natura porta con se.
FORMA |
STRUTTURA |
VARIAZIONE |
Arte figurativa, armonia, equilibrio |
Autonomia relativa del segno architettonico |
Storia del luogo, tracce, funzione, norme, “sensi” |
Fig.1
(Pasquale Bellia: dal ppt delle lezioni del Labort. di Progettaz. Urbanistica)
Esistono delle parti urbane – o anche architettoniche negli interventi di recupero – che sono portatrici di senso. Sono parti che contribuiscono a definire caratteri identitari forti di un manufatto, oppure di una realtà urbana. (Identità come coagulo di valori del quadrinomio: dimensione, forma, aspetto e ruolo). Nel trasgredire (demolendo o non solo) quei valori, si apporta una riduzione di senso relazionale al tema proposto. Per essere più divulgativo: ci sono parti urbane (innesti recenti) o elementi architettonici (superfetazioni o manomissioni) che possono cambiare ripetutamente nel corso della storia di un luogo, senza alterare il senso del luogo o dell’architettura. A venirci incontro in questa decisione e scelta del tipo di intervento è il senso della storia, il senso del luogo, che insieme confluiscono nel senso della forma. Quindi questi elementi di senso, diventano parti attive del progetto alle varie scale. Le tracce della storia e i valori della forma (tracciati di permanenza e di conformazione, V. Spigai 1989) supportano il progetto e servono per verificare se una eventuale intuizione (o voglia) di progetto immaginifica-ideativa è realizzabile e contestualmente controllata. (v. Fig.1) Non voglio fare – come sono certo avete capito – una considerazione né funzionale, né tipologica, foglio tentare delle considerazioni morfologiche, perchè le reputo le più pertinenti. Le farò passando in rassegna gli elementi di senso prima citati, per giungere a quali potrebbero essere le strategie possibili, solo come gioco di intenzioni. Non si tratta di avallare un mimetismo, rivestendo di pietra simile a quella della chiesa o del palazzo, ciò che per forma è per propria origine, deriva da altra tecnologia e altro linguaggio: si farebbe un ulteriore guaio incrostando con le pietre il brutalismo a vista. Verrebbe fuori un aspetto tipico di funzioni innominabili o del falso rustico delle villette al mare.
La scena prima della demolizione del Collegio
Del collegio dei Gesuiti, non si conosce il progettista. Ad una ricognizione solo a vista delle fonti fotografiche d’epoca, si nota non ha riferimenti stilistici e allineamenti dei paramenti murari esterni con la chiesa del Collegio. Nella sua facciata, denuncia il rigore delle strutture settecentesche. Le geometrie che sostengono l’idea progettuale, per quanto semplice, è chiara in ogni suo aspetto.
Se proviamo a leggere il prospetto secondo i principi delle arti liberali e tra tutte la maggiore che è la musica, lo si può assimilare – nella classificazione albertiana contenuta nel De re edificatoria – ad un rapporto musicale diàpason-diapènte o tripla. “il rapporto è tra tre e l’unità, o tra l’intero e un terzo” (R. Wittkower 1949) 1/2 x 2/3 = 1/3. Nella scansione delle consonanze musicali 3/6/9.
L’edificio mostra due piani e un paramento severamente silenzioso, violato da un pronunciato marcapiano, da due accessi evidenziati da sovrastanti balconi posti nell’asse 1/3 + 2/3. Ogni terzo, ha tre finestre per ognuno dei due ordini (come bene si nota dalle foto allegate).
Fig. 2
Lo stato di fatto della piazza al 1870 (vedi foto), rende testimonianza della
Chiesa e il Collegio a definire l’angolo tra l’attuale piazza Italia e via attigua. Si presentano come complesso definito e riconoscibile. Non è ancora stato realizzato il Palazzetto Scrofani e lo spazio di “rispetto” intorno ne esalta l’unitarietà. La compagine edilizia di Scicli, mostra la complessità tipica dell’urbano.
Panorama di Scicli nel 1870 – archivio Giustino Santospagnuolo |
Nella rappresentazione dei primi del Novecento, è presente palazzo Scrofani, ed è molto interessante la continuità della quinta muraria che, con ritmo costante, definisce il fronte sull’attuale piazza Italia. Basta lasciare scorre lo sguardo per rendersi conto dell’omogeneità tipologica, dimensionale, materia, sottolineando la opportuna gerarchia tra edifici notevoli e tessuti urbani.
La coerenza linguistica è ancora più evidente nella foto del 1939. La scenografia urbana ha identità e senso suo proprio sempre misurabile. Tutto l’intorno ha alti gradi di assonanza stilistica, anche in realizzazioni di epoche diverse.
Piazza Italia nel 1939 – archivio Aprile |
Il periodo della demolizione
A metà Novecento, la realtà sociale italiana, veniva fuori da anni di difficoltà dovute al conflitto mondiale, alla recessione sofferta durante il periodo bellico. Negli anni del boom economico, la corsa al consumismo – come riscatto da periodi di oppressione economica e sociale – coinvolse tutti. Si rincorreva il “miracolo economico”. Nanà dava ”spettacolo” al Rugantino. La Fiat, con la 600, mise tutti in auto. In casa apparve il frigorifero. Anche il cinema contribuiva con la “Dolce Vita” e il “Sorpasso” ad educare, liberando le folle.
A Scicli, da poco gli aggrottati erano strati portati – anche a forza – fuori da Chiafura. (v. Città rupestri, il caso Chiafura, ed. Contemporanea, Firenze, 1998). Il paese reggeva essenzialmente sull’agricoltura “siccagna”, incominciavano ad avere sviluppo le colture in serra. Si sapeva delle demolizioni praticate dal Regime e come erano state inferte ferite gravissime in nome di un diradamento che doveva fare esaltare i “monumenti” eretti dal fascismo. La proposta di demolizione del Collegio, venne probabilmente accettata come rinnovamento. In altre città, il regime aveva demoliti interi quartieri, quindi un edificio era il meno. Era come mettersi dietro anni di oppressione e aprirsi ad una modernità, che altrove aveva portato benessere e vita meno dura.
Ma, facciamoci questa domanda: il Collegio è stato demolito perché pericolante, ma lo era davvero? I capomastri del tempo avevano perizia e capacità a costruire di fabbrica, superiori degli attuali addetti all’edilizia. Un’opera architettonica di quel tipo, bassa, a muratura portante, poche aperture, sì vicino alla fiumara da immaginare un cedimento di fondazione, ma certo il Collegio rappresentava un carico minore della Chiesa che ancora oggi appare in buone condizioni. Che gravi disastrosi cedimenti poteva registrare da motivarne la demolizione? Qualche solaio ligneo da rifare, o parti di copertura da ripristinare? Non si demolisce per così poco. Oppure c’era altro motivo, magari riferito alla proprietà, o dell’altro ancora che a noi oggi sfugge? Certo sarebbe importante saperlo, perché la demolizione è un fatto gravissimo che non può trovare motivo nelle spericolate supposizioni che ho tentato di esporre appena ora.
Permettetemi un inciso
Il 16 del marzo del 1996, (amministrazione Padua, ass. alla cultura Scapellato, consulente urbanistico Schininà) promossi, presiedetti e – insieme ad altri appassionati di Scicli – organizzai, una giornata di studio sul destino della Fornace Penna. Dopo essermene occupato per anni, con articoli e studi specifici, ritenni giusto il momento per un confronto. Invitai Cruciali-Fabozzi docente di Restauro dei monumenti alla Facoltà di Architettura di Milano, Alberto Breschi docente di progettazione architettonica Facoltà di architettura di Firenze esperto di archeologia industria, per gli aspetti antropologici Marco Fiorini ricercatore dell’Università di Roma, oltre a personalità della cultura e della politica locale. Io intervenni sul tema “Il principio insediativi e il senso del luogo”. Chiesi, in quella occasione, di invitare l’ex sindaco Cartia – in carica negli anni di cui ci stiamo interessando – con il proposito di porgergli una domanda sulla demolizione e del perché di quel progetto. Il sindaco – già molto avanti negli anni – , con aria sorpresa, mi sorrise bonariamente corrugando ancor più il viso già disegnato dalle tracce del tempo, allargò le braccia e non seppe o non volle dirmi niente. Lessi in quel gesto rassegnato un enorme imbarazzo, forse anche una velata resipiscenza. In compenso mi raccontò della sua permanenza in Libia e come i laterizi della Fornace arano serviti per costruire molti edifici in quel luogo.
La realizzazione della scuola
L’edificio attualmente in essere al posto del Collegio Gesuitico, è opera dell’arch. Nunzio Cilia di Ragusa. Si tratta di un progetto degli anni Sessanta. Siamo in piena affermazione del Movimento Moderno. Brasilia viene pensata fuori da ogni schema razionalista e vince l’idea delle architetture “a mano libera” di Lucio Costa caratterizzata da uno schema urbanistico ad aeroplano. Città burocratica, monumentale e ottocentesca nell’impianto, meccanicamente razionalista nelle “Super Quadras”. Progettista delle architetture è l’architetto Oscar Niemeyer, ovunque quelle architetture vengono salutate con grande entusiasmo. Nella loro intima natura, mostrano uno strutturalismo neoespressionista a caratterizzare l’opera, si pongono così come prototipi e modello per tipologie da riproporre. La realizzazione del Palazzo dell’Alvorada di Oscar Niemeyer, deve aver molto suggestionato l’arch. Cilia. Quel manufatto di Brasilia è molto vicino all’edificio che ha sostituito quello del Collegio. È somigliante sia nell’impianto generale del progetto – e mi riferisco alla concezione di una struttura portante staccata dal retrostante volume vetrato -, sia nell’utilizzo di strutture montanti a vela, usate a Scicli come reinterpretazione di quelle brasiliane.
Ma pensiamo un attimo insieme: Brasilia è una città interamente di nuovo impianto, nata con l’intento di antropizzare del territorio vergine, come sempre si era fatto nelle Americhe nel corso delle molteplici conquiste dell’Ovest. E, in polemica contro il colonialismo portoghese, venne proposta la fondazione di una nuova capitale nell’interno del paese.
Ma … piazza Italia non era e non è un luogo di conquiste. Aveva già caratteri identitari fortemente delineati, una sua specifica fisionomia. La disattenzione progettuale – oltre all’errore della demolizione – credo pesi molto sulla percezione di unitarietà che si aveva prima dell’abbattimento del Collegio. Oppure l’arch. Cilia voleva allinearsi con la tendenza di alcuni progettisti di realizzare tutt’altro che irrilevanti “oggetti a reazione poetica” incuneatesi nei tessuti storici come frammenti allegorici della nuova armonia razionale anelata dagli architetti moderni? Si pensi al Palazzo del fascio di Terragni a Como, alla Stazione ferroviaria di Michelacci a Firenze, ai palazzi di Samonà, Libera, e Ridolfi a Roma, per citare solo alcuni eccellenti esempi a carattere urbano. Ma questa … mi sembra ed è altra storia, con altri protagonisti e di altra qualità … non credo si possa assimilare a quanto verificatosi a Scicli.
Il concorso del 1981
Sono stato studente di Franco Borsi e con lui ho sostenuto l’esame di Storia dell’architettura nel dicembre 1973. Borsi aveva l’aspetto di un Geppetto un po’ ingrossato, per il resto: stessi capelli bianchi arruffati, stessi occhialini tondi e colorito roseo. Era attento e vivace osservatore delle vicende dell’architettura anche contemporanea, virtuoso disegnatore. Sul giornale La Nazione di Firenze del 19 novembre del
In Sicilia, in quel momento del bando del concorso, si allestivano due mostre, una dedicata ad Ernesto Basile e una a “Palermo 900”, che estraggono da Palermo – come scrive Sciascia – e dal suo caos “una città essenzialmente liberty quasi una piccola capitale dell’Art Nouveau”. Perché accosto Palermo a Scicli? Le due città così diverse, hanno una comune radice: il recupero del passato (o almeno il tentativo) come identità culturale. Poco prima a Palermo il piccone demolitore distruggeva le opere di Ernesto Basile, ora con la mostra si cercano i presupposti per riparare quanto sconsideratamente fatto.
È in questo clima che si colloca il singolare episodio del concorso della facciata. Il Comune, testualmente scrive nella delibera, che “essendo stato demolito negli anni sessanta un edificio in piazza Italia tra una chiesa ed un palazzetto che fa parte dell’antico collegio gesuitico settecentesco dalla presa di coscienza culturale di un errore progettuale, relativo all’edificio visto nel contesto urbanistico, è nata l’esigenza di ridisegnare il prospetto dell’edificio in parola”. Questa, appena riportata, è una garbata ammissione di colpa. Borsi, nel suo articolo prima citato, prosegue “dopo aver predicato per anni che l’architettura non consiste nelle facciate, che gli esterni non hanno importanza in confronto all’organicità, ora siamo costretti a fare un concorso per la sola facciata”. La motivazione del bando continua “Il desiderio di una apparente modernità, in una situazione culturale pseudo evoluta in cui ancora non era stato posto il problema della conservazione dei centri storici, determinò la demolizione del collegio gesuitico e la costruzione di una nuova architettura che rompe l’armonia architettonica della piazza. La consapevolezza di questo inserimento architettonico deturpante è diventata, durante questi anni sempre più chiara nell’opinione pubblica per cui diventa necessaria la proposta di un progetto tendente a recuperare un’organica fisionomia alla piazza più importante del centro storico”. Non serve nessun commento.
Credo che l’episodio del riconoscimento dell’errore rappresenti un caso limite e se si vuole paradossale. Ma è importante che all’epoca (1981) si sia avuto il coraggio di interpretare il disagio popolare di fronte “all’approssimativa presunzione dell’architettura pseudo moderna” (Borsi). É importante, anche oggi, che ci si renda conto dei valori culturali rappresentati dalla e nella città antica, (uso il termine antico legandolo alla qualità del manufatto nel tempo e non storico legato al tempo. Perché tutto, dopo un attimo, è storico!) come unica identità tangibile nel “quotidiano” della storia di un popolo. Altro fatto importante è questo: la decisione del Comune di Scicli, non nasceva da esigenze di cultura “specialistica”, quanto dall’interpretazione corretta di una protesta popolare, che negli anni ha avuto vari rilanci e mugugni e poi sempre ha perso vigore. Credo non sia un confronto tra tendenze: tra moderno, post-moderno, antimoderno, non è questione di specialisti o addetti ai lavori, quanto espressione di un disagio popolare che in altre realtà non si è avuto forse il coraggio di far montare.
All’epoca del bando del concorso, una polemica!
Nella delibera comunale, che porterà al bando del concorso più volte menzionato, si parla di “errore progettuale” del nuovo edificio visto nel contesto urbanistico della piazza. Si sottolinea, altresì, come prima dell’abbattimento le architetture settecentesche qualificavano lo spazio urbano di piazza Italia in un rapporto armonico con gli edifici circostanti, mentre il desiderio di una apparente modernità determinò la demolizione del Collegio gesuitico e la costruzione che rompe l’unità e l’armonia della piazza.
All’epoca, contro questi apprezzamenti di natura tecnica e culturale, insorse – come riporta Franco Ventura su La Sicilia del 8 dicembre 1981, dal titolo “Rifare o no la facciata di Palazzo Miccichè” – per salvaguardare la memoria (tecnica) del marito la signora Francesca Cabibbo vedova Cilia. La signora dice: “Non si può sospettare di insensibilità verso i valori ambientali un architetto il cui operato si è inquadrato in una soluzione dialettica di aperto confronto all’inserimento ambientale, soluzione che piacque agli amministratori e che fu avallata dagli organi competenti”. Quest’ultima affermazione non mi risulta attendibile, perché – leggendo sempre dal Ventura – “la sovrintendenza si oppose ripetutamente”. Però tardi, troppo tardi, doveva intervenire prima, per salvaguardare la demolizione.
Intanto il 13 luglio del 1981, l’architetto Portoghesi dalle pagine dell’Europeo presenta il caso del progetto Cilia. Portoghesi, è a tutti noto, è un sostenitore della necessità che gli ambienti mantengano una uniformità di stile nel contesto architettonico relativo, e quindi non vede di buon occhio la facciata dell’edificio di Piazza Italia. Torna alla carica la vedova Cilia “Rimettere in discussione il problema, non può derivare certo dal “vedere” finalmente i problemi, ma, casomai, dal volerli risolvere in un modo migliore”. A suo sostegno, la signora, scomoda un altro architetto di valore: Bruno Zevi. “Io sono – dice Zevi – un sostenitore del dialogo tra antico e moderno. Sono dunque dell’opinione che l’opera di Cilia, quale sia il giudizio che se ne possa dare, debba essere preservata. La si vuole alterare? In tal caso si dovrebbe progettare un’opera ancor più moderna e coraggiosa, non certo un’opera nostalgica, reazionaria, volta ad un’ambientazione mimetica”. Ci sarebbe tanto da dire su queste affermazioni.
Breve inciso.
Ho conosciuto il personaggio Zevi dai suoi scritti, dalle interviste e anche personalmente durante la redazione del progetto per la stazione dell’alta velocità a Firenze, perché posto a capo del gruppo toscano di progettazione. Ne ho sempre apprezzato lo spessore culturale. A metà degli anni Novanta, con altri mi sono occupato delle considerazioni urbanistiche per definire il “Piano guida”, dalle quali analisi scaturì la localizzazione della stazione dell’alta velocità sul Viale Belfiore. Considerazioni urbanistiche che coinvolsero l’asse stazione ferroviaria – Fortezza da Basso, che hanno determinato l’interramento del viale e la pedonalizzazione dell’area. Zevi mi sembrava incline alle esasperazioni, importante per lui era esagerare mettendosi all’opposizione forse per spettacolarizzare ogni gesto. Chi conosce le sue sette invarianti dell’architettura neoplastica, può meglio capire. Quindi, che abbia sostenuto per la facciata tutto l’opposto del ragionevole, non mi meraviglia in niente.
La signora, sostenuta da Zevi, conclude: “Se ha ragione Zevi, l’opera è da salvare. Ma se avesse ragione Portoghesi, in nome di quale etica si dovrebbe abbatterla? In nome della conservazione dei beni culturali per cui si sono battuti e si battono gli architetti delle nuove generazioni? O non sarebbe per caso un atto di barbarie e di vandalismo, che costerebbe oltretutto ai cittadini fior di quattrini?”.
Il giornalista Ventura conclude, con saggezza e benevolenza insieme: ”non si tratta di moda, signora Cilia. Dalla riflessione di una comunità è nata la proposta, che comunque va sempre sottoposta ad una intesa dialettica”.
Queste le vicende di mia conoscenza, fino agli anni del concorso.
Una riflessione è importante fare a questo punto, anzi due.
La prima sconcertante, è la grave ammissione dell’errore progettuale da parte dell’amministrazione. Amministrazione (chiaramente diversa da quella che aveva demolito) che dopo, per cercare di sanare un danno, bandisce il concorso.
La seconda riflessione, riguarda un punto scoperto della difesa della vedova Cilia. Possiamo comprendere umanamente la legittimità della sua affezione all’operato del marito, ma badate bene, non si può sostituire al progetto, il valore sentimentale del soggetto! Un limite di molta architettura odierna: è l’autoreferenzialità! Alcune realizzazioni, sono il monumento al progettista dell’opera. Si configurano come oggetti: nella città non si può agire per “cose”, bisogna pensare in termini di relazioni, di sistemi, di strutture, cioè parti e relazioni tra di esse. Autori che attualmente “si portano” tantissimo, vanno nella direzione appena accennata, e alla fine il prodotto qual’è: bomboniere, timballi, sformati, ipertrofiche ed opulente sculture espressioniste rivestite in titanio che intono non vogliono niente, perché con niente si possono relazionare. Indicano l’autocentrismo di progettualità represse.
Altro inciso.
Pratico la Svizzera, per l’architettura realizzata in quello stato e anche per studio. Spesso appronto itinerari alla ricerca di architetture (evito di citarle) che in quel territorio sono di mio interesse. In uno di questi viaggi, sono voluto andare al Vitra, nei pressi di Basilea, ma poco oltre il confine svizzero, in Germania. Su un prato – immaginate piazza dei Miracoli a Pisa – sono collocate delle architetture d’autore con funzioni pubbliche, che il facoltoso proprietario della fabbrica di sedie, ha voluto donare alla città. Gli autori: Frank Gehry, Tadao Ando, Zaha Hadid, Alvaro Siza. Oggetti sparsi quasi come Le Follie di Bernard Tschumi al Parco de la Villette. Tra tutte, le esasperate contorsioni del museo di Frank Gehry, mi apparivano centripete, cioè tutte interne alla logica del progetto e di chi l’aveva immaginato, nessuna relazione con niente, perché a quegli “oggetti” non serve e non vogliono niente intorno. Sono un monumento alla persona! L’eredità di chi vuole lasciare “il segno” del proprio passaggio. Per il bene di un bene comune, che è la città: non si può più pensare un questo modo, fermandosi al primo tratto della fig.1.
Tempo addietro, ho visitato a Ginevra un’opera giovanile di Le Corbusier costruita nel 1931. Realizzata in acciaio e vetro, con struttura metallica e tamponamenti in legno: La Clartè. Un inserimento di grande controllo e misura, in un contesto fortemente definito. Progetto sempre attualissimo. Badate bene e ribadisco 1931, la nostra scuola è degli anni Sessanta.
Come, a ripensarci, l’idea progettale che si era messa in ponte nel 1981 per la facciata di Scicli con il mio gruppo di progettazione – cambiando la tecnologia – potrebbe sempre essere valida come soluzione e logica di approccio al contesto.
Recentemente, come Facoltà di Architettura, abbiamo avuto in visita un gruppo di docenti del MIT (Massachusetts Institute of Technology), nello scambio – alle nostre esperienze di intervento nei centri antichi -, ci hanno passato delle scoperte tecnologiche per l’architettura molto interessanti che potrebbero essere bene applicate per riconsiderare la “quinta” della facciata della scuola di Scicli.
Potrei continuare a dire e a dare. Potrei parlarvi: della relazione prossemica esistente e come dovrebbe essere nel valore della “distanza limite” in quella strana piazza Italia; delle consonanze e dei contrappunti che con buona volontà si tende a trovare nel progetto del Cilia; del tema dell’armonia introvabile in quel progetto mono-tono; delle proporzioni e delle gerarchie nel progetto di architettura; della simmetria e della modularità come strumenti del progetto; del ritmo, ecc.
Ma mi fermo qui.
Ed ora … a questo punto … che fare?
Ho visionato le proposte che da volenterosi e speranzosi lettori vengono avanzate. Sono contento per la vostra speranza, che non va mai mortificata, ma credo difficile ogni soluzione. Non perché tecnicamente o architettonicamente non sono convinto del buon esito, anzi tutt’altro. Sono certo, perché il convincimento e la determinazione sono forti, come forte – nonostante gli impegni negli anni assolti con diligenza – è la tentazione a farsi da parte. Scicli è un ambiente – permettetemelo con bonomia estrema – difficile. Alcuni commenti letti, ne sono conferma ulteriore.
Mi ripeto, da qualche anno per Scicli, lo stesso giuramento – a Scicli noto – che pronunciò l’ing. Ignazio Emmolo nel 1924, al cospetto della Fornace Penna che si consumava tra le fiamme.
Nonostante tutto, sono intervenuto su questo argomento e in questo sito, per la passione che sempre sento per il mio impegno disciplinare e per la ricerca, alla quale ho dedicato la vita. Poi per la stima verso il moderatore. E perché la Sicilia è per i siciliani, come la donna dell’antico poeta: nec sine te, nec tecum vivere possum.
Sarò lieto di leggere gli interventi di quanti vorranno commentare questo pensiero, non mi va bene il sistema delle domande e delle risposte personali quasi telefoniche o sms, come ho visto avviene. Sono per un eventuale confronto fattivo e innanzitutto, tra gente serena, possibilmente nella comprensione dell’interlocutore che risponde. In questo senso invito il moderatore a sollecitare – almeno per questo argomento – l’identità certa degli interventi, nel sereno coraggio delle proprie posizioni e dei propri pensieri.
Considero questo intervento, come un servizio reso alla comunità.
È domenica notte – quasi lunedì – domani spedisco a Peppe, perché ho altro da fare…
Ringrazio tutti per il contributo dato al precedente intervento, perché dalla cooperazione possano nascere solide consapevolezze e idee partecipate:
Walt Whitman – un papa’ SCICLITANO fuori sede – Un uomo libero … pincopallino. Raduc!!!
p.s. I libri che cito o citerò con i riferimenti editoriali, li ho donati e si trovano presso la biblioteca comunale di Scicli.
arch. Pasquale Bellia
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