di Redazione


Vittoria – “Gli dia una Pigata per le rene, crazie”, “2 pinnoli perantare di corpo”, “Mi duna pinoli per stitichezza per ire dicorppo”.
Sono tre dei tanti “pizzini” raccolti e conservati in un piccolo contenitore di cartone in un vecchio cassetto del bancone di una farmacia antica di Vittoria. In un foglio a parte, poi, sono annotati i nomi dei clienti che acquistavano i farmaci. Una raccolta che si snoda attraverso mezzo secolo di storia e di vita della farmacia, oltre mezzo secolo di storia vista attraverso la richiesta del farmaco. Leggere e interpretare uno a uno tutti i “pizzini” raccolti significa trovare un momento d’incontro con la storia dei Vittoriesi, della città, delle sue tradizioni, della sua cultura popolare, insomma, e un momento di spensieratezza tra un sorriso e un altro. Sono davvero tanti i “pizzini”, quelli che si sono recuperati, ma tanti altri indecifrabili perché sbiaditi dall’usura del tempo o perché ammuffiti e tutti con richiesta di medicinali che la gente di ieri andava ad acquistare dal farmacista. E, allora, era anche lo “Spiziali”.
Frasi strane, a volte ambigue, che bisognava interpretare una a una e che, al tempo stesso, fra un sorriso sornione e una battuta sarcastica, appassionavano.
Il digestivo “Antonetto”, per esempio, diventava “Anzonetto” della “Carolo e Erba (divisione Carlo Erba) e la “Magnesia S. Pellegrino” era “Una busta di magnesia Fosforescente”, così il “Vickssinex spray nasale” si trasformava in “Dix.Sinexi strae nasale” e in “Chis Vaporubisse”, mentre i fermenti lattici erano i “Frumenti elastici per neonati”, e poi, ancora, “Le pillole per mestrolazioni” che servivano per i dolori del ciclo mestruale. Quando occorreva, poi, un sedativo “u medicinali contro u scantu”, doveva essere di color rosa, altrimenti il prodotto perdeva la sua efficacia. Per colorare il prodotto, dunque, era necessario aggiungervi una goccia di Alkermes che, oltre a dar colore al medicinale, lo rendeva aromatico, ma senza alcuna funzione sedante. Il legame tra il farmacista e il popolo era, insomma, diretto e confidenziale, ma sempre rispettoso, un rapporto personale con tutti, con tutte le piccole e grandi sofferenze della gente. Certo, la maggior parte della gente non aveva istruzione, molti avevano frequentato la prima classe della scuola elementare, mentre i più fortunati erano arrivati sino alla terza o alla quarta. Non c’era la scuola dell’obbligo e le famiglie, demograficamente più numerose, avevano tante bocche da sfamare e i libri non davano pane. La miseria e la povertà costringevano a cercare un lavoro, a darsi da fare per portare a casa un pezzo di pane, anche da minorenni; tutti, insomma, dovevano aiutare la famiglia e il tempo, ma principalmente le possibilità economiche non consentivano “perdite di tempo sui libri e a scuola”. C’erano anche molti altri che, pur non sapendo leggere e scrivere, riuscivano a copiare il loro nome e cognome dal fogliettino che tenevano in tasca e sempre a potata di mano per l’eventuale esigenza. Ai farmacisti o “Speziali”, come li definiva il popolino s’affiancavano due altre categorie: quella dei “Sapientoni” o “Santoni” e quella dei “Maghi” della medicina. C’era pure il vicino di casa o la vicina di casa che s’improvvisavano “fisioterapisti” e “ortopedici”.
Una slogatura, una distorsione, un torcicollo erano demandati a quelli che “sapevano aggiustare le ossa”.
I “maghi” della medicina si dilettavano, invece, provando infusi e misture di erbe.
Erano questi esperti erboristi (così si definivano) che, improvvisandosi guaritori, sciorinavano nomenclature di erbe, di ricette e di tecniche farmacologiche che, a seconda del caso e del paziente, prescrivevano per alleviare e, qualche volta curare, i mali “minori” della gente.
E dissertavano nel vicinato e nel quartiere, per cui il “passa parola” li faceva diventare punti di riferimento, raccogliendo una vasta clientela che non pagava in denaro, ma in natura (borse di alimentari, primizie, coniglio di caccia e altri generi). Le erbe, quindi, rappresentavano l’altra medicina, quella di Mitridate, detto il Grande, re del Ponto che, ingerendo metodicamente piccole dosi sempre crescenti di infusi di erbe velenose, riuscì ad assuefarsi ai veleni. E i “maghi” delle erbe, che catalogavano per istanze e bisogni della gente, perfezionavano sempre più le loro tecniche, tentativo (alcuni in buona fede, altri per speculazione) di sostituirsi al medico e al farmacista verso i quali, comunque, si aveva tanto rispetto. Le piante e le erbe che erano state usate per la medicina nel corso della storia, nella credenza popolare avevano anche effetti miracolistici e le loro proprietà furono fraintese.
Nelle credenze astrologiche (famosi i Babilonesi) si attribuivano alle erbe poteri speciali e particolari, tanto da influenzare persino i numeri. Si credeva, infatti, che i sette e il nove avessero un potere speciale e, di conseguenza tutte le piante che potevano mostrare riferimenti a questi numeri erano ritenute particolarmente benefiche: erano curative e usate, dunque, piante con sette o nove bacche a semi. Ma le erbe non servivano soltanto per la medicina; furono usate e utilizzate con certi amuleti per incantesimi e filtri magici: contro le “fatture”, per “innamoramenti” e per casi disperati di salute. La trionfante ignoranza e la tradizione popolare, poi, spingeva sempre più le persone a curarsi da sole (una “medicina fai da sé”) con prescrizioni casalinghe o rivolgendosi a ciarlatani. Molte concezioni magiche erano associate alle piante e alle erbe: il basilico, per esempio, allontanava le zanzare e l’aglio e il peperoncino rosso appesi dietro la porta di casa (qualcuno aggiungeva anche “u fierru do cavaddu”) scacciavano l’invidia e il malocchio.
La mistura di bacche di piante, inoltre, si sostituivano ai purganti delle farmacologia. Il raffreddore era curato con l’aglio e i vermi parassiti con la salvia e il melograno, anche se la vicina di casa, qualche volta, specialmente per i bambini, si prestava “a calarici i viermi” o togliere un’insolazione tenendo un piattino d’olio bollente che agitava con un cucchiaino vicino alla testa. I disturbi delle mestruazioni, infine, erano curati con la carota e il rosmarino. Le donne anziane, poi, avevano anch’esse il loro armadietto di medicinali a portata di mano e pronto per l’uso. Il bambino che piangeva continuamente e non voleva saperne di prendere sonno, ecco un buon bicchiere di “cuccuzzedda u suonnu” o il ragazzo che, giocando per strada, si feriva un pezzo di “pala di ficurigna” cicatrizzava la ferita. I dolori reumatici, infine, si alleviavano con una bella “stricata di pitroliu” o, in mancanza, di alcool. I nostri antenati, probabilmente, avevano tanta saggezza o ne sapevano una più del diavolo, come si dice.
E, per concludere, non si può non parlare di quei poveretti che soffrivano di pressione alta e avevano bisogno d’un salasso. Era quello un rito. Conservate nell’acqua in una boccia di vetro, custodita in un angolo della cucina, c’erano le sanguisughe, appiccicate come ventose dentro e pronte a succhiar sangue. La tecnica era molto semplice: si applicavano le sanguisughe in varie parti dell’organismo e l’anellide, avendo la caratteristica di secernere con la saliva una sostanza che impediva la coagulazione del sangue, cominciava a succhiare a sazietà una quantità di sangue. La sua azione, infatti, favoriva la risoluzione di certe situazioni patologiche, specialmente di carattere infiammatorio nelle quali era particolarmente spiccato l’ingorgo di sangue. Le sanguisughe erano però pericolose per i cavalli, gli asini e i muli che erano abbeverati ai fiumi. Se una di queste si attaccava al palato dell’animale erano guai: se non ci si accorgeva e non si correva subito all’estrazione dell’anellide dal palato dell’animale, questo rischiava di morire per soffocamento.
I Vittoriesi, insomma, come tutti del resto (i tempi erano quelli che erano: di povertà, di miseria, ma anche di analfabetismo) si affidavano alla loro tradizione, alla loro cultura ma, principalmente, all’esperienza e alla saggezza dei loro antenati. I “pizzini” sono stati sostituiti dalle ricette con o senza pagamento di ticket e le erbe hanno trovato una collocazione nelle erboristerie. Qualche “mago” (e, forse, qualche “ciarlatano”), di tanto in tanto torna alla ribalta della cronaca nera e giudiziaria.
Gianni Di Gennaro
Pietro Monteforte
La Sicilia
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