Cultura
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17/01/2009 15:31

Un Uomo Libero. Il fuggitivo

di Redazione

Mi trovavo a Barcellona per partecipare a un convegno. Avevo prenotato il mio solito albergo. Una serata fresca, di fine estate, preludio di un autunno imminente. La brezza marina lasciava sulle basole dei marciapiedi e sul bitume delle strade un velo di falsa rugiada. Appiccicaticcia, vischiosa. Avevo comprato un biglietto dell’AVE e in circa due ore e tre quarti un treno elegante, e soprattutto comodo, mi aveva portato dalla stazione di Atocha di Madrid fino alla stazione di Sants, nel cuore della vecchia Barcellona. Sistemai il mio piccolo bagaglio nella stanza d’albergo. Il tempo di rinfrescarmi ed uscii. Quattro passi per la rambla principale che da piazza Cataluña porta dritta al mare. Variopinta, bizzarra, inimitabile palcoscenico del mondo. I mimi, statue immobili e vive, offrivano strane performances in compenso di qualche centesimo e spesse volte di un semplice sorriso. Mi stancai. Aspettai che si liberasse un posto nei sedili di ferro sistemati all’inizio del viale, in prossimità della piazza, per sedermi e riposare, per vedere sfilare il mondo davanti ai miei occhi. Squillò il mio cellulare. Erano amici. Mi chiamavano dalla Sicilia per avere notizie della città. M’informavano di avere comprato un pacchetto turistico e a giorni sarebbero arrivati con un volo charter. Conversammo di tante cose. Una telefonata lunga che costò a entrambi un autentico patrimonio. Riattaccarono. Emisi un sospiro di sollievo che si trasformò in una specie di singhiozzo all’apparire del residuo credito telefonico.

-Mi saprebbe dire l’ora?- Chiese una voce di ragazzo dall’altra estremità del sedile di ferro.

Mi girai istintivamente verso di lui. Non so se fosse già seduto in quel posto prima che io arrivassi. Di sicuro non lo avevo notato. Mi sorprese che qualcuno si rivolgesse a me nella mia lingua. Estrassi dalla tasca della camicia il telefonino e glielo mostrai perché potesse leggere lui stesso l’ora.

-Italiano? – Tornò a chiedere, quando si rese conto che io non avevo molta voglia di parlare.

-Sì.- Risposi telegrafico ed anche un po’ diffidente.

-Guardando con attenzione i tratti molto marcati del suo volto lo avrei qualificato come un uomo del sud.- Continuò senza curarsi del mio riserbo.

-Sì.- Confermai, avaro di parole.

-Non ha l’aria di chi viene qua in vacanza. – Riprese. -Il suo aspetto non ha niente del turista. Piuttosto io lo crederei negli affari. L’ho visto fare su e giù per la rambla. Avrei giurato che fosse uno del posto. La disinvoltura di chi conosce i luoghi, il passo frettoloso e deciso, lo sguardo che non ha bisogno di indugiare altrove per scoprire architetture e posti sconosciuti.-

Lo guardai meglio. La sua analisi non mi pareva superficiale. Anzi. Nascondeva uno spirito sensibile. Mi sembrò, ad una prima occhiata, un abile scrutatore di uomini e cose. Mi guardava con occhi intelligenti e vivi. Aspettava da me una parola, un gesto che gli avrebbero concesso l’onore della mia confidenza. Ero molto guardingo al riguardo.

Barcellona è una città dalla vita molto articolata e complessa. Offre con facilità incontri tra i più vari, nasconde insospettabili inganni, trasgredisce le più elementari regole della convivenza per una vita anarchica e spensierata.

Ritornai a guardarlo con più interesse. Sperava sempre in un mio aiuto.

-Io, invece, non sono del sud…- Proseguì come se non avesse mai fatto una pausa.

-Questo lo avevo intuito.- Lo interruppi, togliendolo da un imbarazzo che diventava insostenibile.

S’illuminò di gioia appena sentì la mia considerazione.

-Sono di Monza.- Precisò.

-Per quale ragione ti trovi qui a Barcellona?- Chiesi, assecondando finalmente le sue aspettative.

Ebbe un attimo d’incertezza. Glielo lessi negli occhi.

-Scappato. Sono scappato di casa. – Sorrise maliziosamente e scrutò con curiosità il mio volto per leggervi l’inevitabile sorpresa.

-Come scappato?- Gridai con affanno e preoccupazione nella voce.

-Scappato! Come si scappa da una galera, da un pericolo, da qualcosa che limita la tua libertà senza un giusto motivo.- Sorrideva ancora, calmo, imperturbabile.

-Ma ti rendi conto di quello che hai fatto?- Lo rimproverai questa volta con molta partecipazione.

-A quest’ora i tuoi genitori saranno preoccupatissimi, ti staranno cercando come pazzi…-

-Certamente! Mi rendo conto. Non sono più un bambino, ho ventisette anni compiuti.-

-La polizia ti starà cercando, ma anche programmi televisivi che si occupano di rintracciare persone scomparse, sarai con la tua foto su tutti i giornali…- Volevo impaurirlo per spingerlo a recarsi al più vicino ufficio dei Mossos d’Esquadra.

-Tranquillo. Non si preoccupi!- Aggiunse.- E’ da prima dell’estate che manco da Monza. Ma non sono mica scemo, io! Prevedevo che ciò sarebbe potuto accadere. Per evitarlo, appunto, dopo qualche giorno dalla mia fuga, chiamai mia madre in ufficio e la rassicurai in questo senso.-

-E lei che cosa rispose? Quali reazioni ebbe?- Domandai.

-Certamente non era molto contenta di quello che avevo fatto. M’implorò di ritornare. Ovvio! Voleva sapere dove mi trovassi e glielo dissi, anche perché sarebbe stato inutile nasconderlo. La polizia, già era stata avvisata, mi confessò, in poco tempo avrebbe potuto scoprire la provenienza della telefonata.-

-Non hai chiamato dal tuo cellulare?- Passava da una mano all’altra nervosamente un telefonino piccolissimo e sicuramente costoso. Lo aveva estratto da una tasca dei pantaloni dopo che aveva raggiunto la certezza di aver suscitato in me un interesse per la sua vita.

-Non sono pazzo a tal punto! L’ho chiamata da un locutorio, un posto pubblico dal quale si possono fare telefonate internazionali dirette a quasi tutti i paesi del mondo. A Barcellona ce ne sono tanti. Del resto qui lavorano migliaia di emigrati. Provengono da terre anche molto lontane come India, Pakistan. L’ho rassicurata dicendole di avere trovato un lavoro, di stare a mio agio, di voler fare esperienza. Quando non avrei più potuto mantenermi, le ho promesso che sarei ritornato.-

Sorrise sempre con molta malizia.

-Mai!- Aggiunse fiero e deciso.

-Aspetta…- lo interruppi confuso.- Fammi capire. Hai detto di aver trovato un lavoro? Dove lavori, allora?-

-L’ho detto per tranquillizzarla. Dissi di fare il lavapiatti in un ristorante.-

-Ed è così?-

-In parte è vero. Il lavoro ce l’ho. Lavo qualcosa. Ma non piatti. Cessi. Di un locale notturno porno. Quando non lavo i cessi, la direzione m’impegna come buttafuori alla porta d’ingresso. Per selezionare la clientela, per intervenire in caso di risse e di molestie.-

Sorrideva sempre come se avesse voluto farmi un dispetto.

-Che sciocchezza fuggire da casa per poi finire a pulire cessi in una città lontana dove nessuno ti conosce!- Commentai con amarezza.

-Lei non potrà capirmi mai.- Rintuzzò subito le mie parole.-Mio padre è un alto dirigente della Regione Lombardia; mia madre, preside di un liceo di Milano. Non mi hanno fatto mai mancare niente, però mi hanno privato del vero necessario. Il loro tempo, le loro vite. Sin da piccolo mi consegnarono alle cure di decine di governanti che il mio carattere ribelle spesso metteva in fuga dopo alcune settimane. Ero stufo di vivere solo fra le mura di una casa piena di ogni comodità ma disabitata dall’amore e dall’affetto. Progettai tante volte una fuga senza avere mai il coraggio di realizzarla. A scuola non eccellevo. Anzi la odiavo perché mi sottraeva la compagnia di mia madre. Passavo intere giornate davanti alla televisione o al computer fra decine e decine di giochi elettronici. A stento vedevo mio padre il sabato e la domenica. Quando stavamo insieme, scaricava i suoi nervi su di me. A che cosa serve accumulare, indebitarsi per comprare una baita in montagna, una villetta al mare, se non si ha il tempo di potere godere queste cose?…-

Capii che non aveva tutti i torti e il suo discorso non faceva una piega.

-Hai fratelli e sorelle?- Chiesi con curiosità, d’istinto.

-No. Figlio unico. Mi sarebbe piaciuto averne, mi avrebbero fatto compagnia. Avremmo così diviso non solo i beni ma anche la solitudine.- Affermò con una vena di malinconia e di tristezza.-Quando mi stancavo della televisione e del computer, scendevo giù nel parco sotto casa. Mi sedevo in una panca come ho fatto ora e mi piaceva immaginare le vite delle persone che mi passavano davanti. Inventavo, utilizzando i loro volti, storie su storie che erano soltanto mie. Anche oggi ho fatto così con lei.-

-Consumi droghe?- Domandai a bruciapelo.

Riapparve sulle sue labbra il sorriso malizioso, furbo.

-Sarei  un ipocrita se le mentissi. Ho fatto, a dire il vero, un po’ di cocaina, però mi sono fermato in tempo. Ora non potrei. Questa vita mi ha fatto riflettere e mi ha imposto delle regole che prima non avrebbero avuto senso per me.-

-E cioè?- Tornai a chiedere.

-Veda, se il mio datore di lavoro, chiamiamolo così, dovesse scoprire che io mi drogo mi licenzierebbe subito. Non vogliono drogati, sono inaffidabili. Prima o poi scappano con la cassa. Ad ogni modo ora, ogni tanto, quando mi trovo con amici, fumo solo un poco d’erba. Un porro, come si chiama qui lo spinello, y ya está!-

Squillò il suo cellulare. Sentivo una voce di donna che lo chiamava. Usava un linguaggio giovanile e aggressivo. Il ragazzo si difendeva con parole pazienti e dolci. La scherniva a volte. La rassicurò dicendo che di lì a qualche minuto sarebbe andato al suo appuntamento.

-Chi era?- Chiesi con una voce possessiva e arrabbiata.

-Chi era?-Ripeté lui con enfasi.-Nessuno. Una delle tante che ho incontrato qui e con la quale di quando in quando echo un polvo…senza interesse, senza problemi. La vita è la vita. Ha i suoi ritmi, le sue esigenze, le sue falsità quotidiane, i suoi inganni. Per quale ragione molta gente frequenta in maniera assidua il locale dove lavoro? Se l’è chiesto mai qualche volta? C’è chi sceglie la parte del cacciatore e c’è chi sceglie di essere vittima. In effetti, a volte, la vita definisce ruoli per noi, anche contro la nostra volontà. Spesso succede che in quei ruoli poi ci si riconosce e ci si adagia. Mi creda. Tutto alla fine è un gran casino!-

-Senti, – azzardai – ho capito, stanotte non so che cosa potrebbe succederti…-

-Che cosa potrebbe succedermi? Nulla che non sia già successo. Un gruppo di ragazzi e ragazze mi aspetta a Plaça del Rei. Ci ubriacheremo come marinai, fumeremo erba come camini, sesso spensierato e a volontà, in una notte sganciata dal tempo e dalla storia.-

-Non andare!- Lo supplicai.- Stasera t’invito a cena. Andiamo in un ristorante che a te piace, potremo parlare fino all’alba, se vuoi…-

-Non posso, mi stanno aspettando e già erano furiosi per il mio ritardo…mi sarebbe però piaciuto restare qui a parlare ancora un po’ con lei. Cerco sempre qualcuno al quale raccontare la mia vita, non per chiedere denaro, come spesso succede. Le ripeto, non ho problemi economici.- Mise la mano in tasca e tirò fuori alcuni pezzi da cinquanta euro per dare più credito alle sue parole. -Ho solo bisogno di sentirmi amato, ascoltato, compreso. Questo solo mi manca e i miei genitori non l’hanno mai capito.-

Si alzò. Non sorrideva più. Mi porse la mano.

-Se un giorno si dovesse ricordare di me, il mio nome è Alberto…-Abbassò gli occhi come per nascondere un’emozione.-Addio. Io sicuramente non mi dimenticherò di lei.-

Rimasi impietrito a guardarlo mentre si allontanava. La sua storia mi aveva turbato. Mi alzai. Provai meccanicamente a seguire i suoi passi. Presto si confuse tra la folla ed io lo persi. “Piazza del Re, -pensai -è là che ha detto di dirigersi per incontrare i suoi amici”. Mi avviai malinconicamente verso quel posto, scendendo per la rambla. Preferii entrare nella piazza da una viuzza laterale. Diedi uno sguardo preoccupato e curioso, sperando di vederlo col gruppo, non visto. Tanti ragazzi erano sdraiati a terra tra cumuli di lattine, di bottiglie vuote, di sporcizia varia. Un bailamme ingigantito dai cori e dal suono delle chitarre. Non capivo quel mondo e, ora, meno che meno, lo accettavo. Disgustato, decisi di allontanarmi, uscendo dalla porta principale. A un tratto un gruppo numeroso e chiassoso mi travolse, spintonandomi. Lui era tra quelli. Mi passò vicino fingendo di non conoscermi. Una ragazza dall’abbigliamento strano e colorato, con un volto pesantemente dipinto, lo cingeva con un braccio alla vita, abbarbicata al suo corpo come un tralcio di edera. Di colpo lui si voltò, mi strizzò l’occhio e, con il suo gruppo, scomparve tra la gente.

Di là dalla rambla, attraverso un dedalo di piccole vie, fuggiva dal mio mondo ipocrita, convenzionale e borghese in cerca di una libertà anch’essa effimera ma necessaria al suo irrinunciabile sogno. Si dileguava come ombra senza volto e coscienza -così aveva detto- nell’impenetrabile notte.

Un Uomo Libero