Dedicato ai bambini morti nei campi di concentramento
di Un Uomo Libero.

Il puntino che divenne una macchia,
che divenne una striscia,
che divenne un bambino
(Boyne John)
Forse è una filastrocca, ma non ha la cantilena, forse è una ninna nanna o forse è una preghiera; forse è l’incipit di un racconto, forse è un non ricordo mai vissuto, forse è una memoria che non vuole essere sondata, forse è un incubo da dimenticare, o forse è ciò che resta di un brutto sogno che non è stato mai narrato. Forse è una semplice storia che vuole essere solo raccontata. Il puntino che si fece macchia che divenne una striscia che diventò un bambino aveva un nome. Tutti i bambini al di là della rete avevano un nome. Senza forse.
Socrathe
Un’armonica a Auschwitz
Un Uomo Libero
a tutti i bambini che sono morti
nei campi di concentramento nazisti;
a tutti i bambini che quotidianamente
muoiono, vittime innocenti e sacrificali
della follia degli adulti;
nel giorno della Memoria
David si era accovacciato nella neve. Suonava una vecchia armonica che aveva trovato fra le cose di Ester. Era tutto quello che restava di una donna, della sua famiglia, della sua storia. Si erano fatti compagnia per settimane fino a quando la donna si ammalò. La vide partire, una mattina di novembre, per una destinazione senza ritorno. Senza poterle dire neppure grazie, neppure addio. I forni crematori numero quattro e cinque funzionavano ininterrottamente. Prima o poi sarebbe arrivato il loro turno. Per Ester quel turno era già arrivato. Tossiva, si era ridotta una larva, puzzava nonostante si lavasse con la neve. La prossima selektion non l’avrebbe di sicuro superata povera donna! E così fu. Crollata sotto il peso del suo male. Aveva amato David come figlio suo, dopo che la madre, da subito all’arrivo, era stata mandata ai crematori. Lo aveva accudito come se quel bambino fosse l’ultima ragione della sua vita, l’ultimo sforzo per sentirsi viva in quell’inferno d’uomini. E ora, mentre andava all’appello, lo guardava, volgendosi indietro, con gli occhi della madre. Pieni di lacrime, consapevoli della propria fine imminente. Ma quale destino per David? Due occhi azzurri, un viso ariano, un bimbo che, giorno dopo giorno, diventava l’ombra di quello che era stato. “Perché -si era più volte chiesta Ester- anche lui non era stato avviato ai crematori come gli altri bambini, col gruppo delle madri?” Non sapeva rispondere. Nemmeno David conosceva la risposta. Sapeva solo che era stato scelto. E per questo godeva del trattamento di un Prominent. Un medico con occhialini d’oro, dal nome strano che sembrava una cantilena e dalla voce autoritaria e influente, alla Ka-Be, aveva scrutato molto bene i suoi occhi. Gli aveva dispensato anche una carezza. Aveva pronunciato parole e date che erano state, subito puntualmente, raccolte da altri e appuntate in un misterioso libro della vita. Una scadenza, in particolare, raccontava di vicine primavere. Riempiva di timore e dubbi la sua piccola testa ignara di uomo improvvisamente cresciuto. Dio solo invece sapeva a quale pietoso martirio lo avesse condannato quell’angelo della morte che lo aveva accarezzato! David aspettava. Suonava una nenia triste, insistente, caparbia, sempre uguale. Aspettava quella voce perentoria che avesse messo fine a quell’attesa e a quella nenia che altro non era che un ultimo requiem. Spesso aveva guardato il fumo sprigionarsi lontano e alto dal camino, con il suo odore acre di carne bruciata, e si era chiesto che cosa stessero facendo laggiù, quale gioco strano avessero inventato per ingannare il tempo e la noia di quell’incomprensibile e immotivata prigionia. Da un po’ s’interrogava invece perché mai le ciminiere rimanessero spente, che cosa stesse succedendo all’interno del campo. Percepiva un’agitazione, un fermento. Sperava a ogni momento, con ansia, nel ritorno di Ester per prospettarle i suoi tanti perché, per confidarle la tristezza della propria vita durante la sua assenza, per piangere tra le sue braccia l’abbandono -così aveva creduto- della madre. La fame aveva divorato ora anche la sua vista, non aveva più forze per correre nel prato. Senza di quella donna la notte e il giorno scandivano solo i tempi dell’attesa, di una sofferenza inutile ma che lo avrebbe sicuramente liberato.
Faceva particolarmente freddo quella notte. Ester lo avrebbe riscaldato tra le sue braccia. Non poteva dormire. David prese la sua armonica e, soffiando con la poca aria rimasta nei polmoni, riprese la sua cantilena strana, seduto a terra per lasciarsi morire. Nessuno protestò nella baracca. Non avevano più voce e quel suono si confondeva con altri suoni che erano lamenti.
Doveva essere l’alba. Sicuramente lo era. Fuori aveva smesso di nevicare e ora la neve fresca rifletteva la luce sinistra, cattiva, della luna. La porta della baracca a un tratto vacillò sotto calci potenti. David interruppe la sua musica e guardò con occhi stralunati e supplici due uomini che non somigliavano alle guardie del campo. Vestivano un’uniforme diversa, parlavano una lingua incomprensibile. Alla luce delle torce il loro viso sembrava diabolico, spettrale. Istintivamente scoppiò a piangere. Tremava come una foglia non per il freddo ma per la paura, presentendo l’imminenza della fine. Gli lanciarono un pezzo di pane che il ragazzo raccolse con mossa fulminea e divorò con grande avidità. Capì che non volevano il suo male. La musica aveva richiamato l’attenzione dei soldati. Arrivò uno di loro che parlava il tedesco e annunziò a tutti, impauriti e attoniti, che la guerra era finita e nessuno li tratteneva più. La notizia si propagò in un baleno in tutto il campo. Lentamente le baracche si animarono in quell’alba attonita. Uscivano incontro ai liberatori da quei tuguri come folli. Ridendo, piangendo, danzando, gridando con l’ultima voce in gola. Fantasmi, parvenze d’uomini, larve, risorgevano increduli come nel Giorno del Giudizio dalle loro tombe scoperchiate, aperte. Liberi. Finalmente liberi. Davvero liberi.
Un Uomo Libero
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