di Redazione
Si parte dalla semplice percezione: riesce a fornire un’informazione meramente sensibile, sensoriale, ma non per questo meno significativa. Immediatamente dopo entra in gioco il ruolo della cifra interpretativa, non solo da parte del “fruitore”-attore dell’opera d’arte ma anche, e soprattutto, da parte dell’autore: chi non riesca a costruirsi una interpretazione propria può tranquillamente “usufruire” di quella autografa dell’artista con l’amara consapevolezza da parte di entrambi di aver mancato l’obiettivo in modo macroscopico.
L’interpretazione dell’Arte è come lo sguardo di un bambino al cielo: si diverte a rincorrere quelle forme mutevoli, si diletta a riconoscere fra le nuvole in corsa forme conosciute … crea: è Dio. Nel momento in cui il “fruitore”/artista è incapace di interpretare il frutto di un parto mentale allora nella comunicazione per eccellenza, in quella che non dovrebbe aver bisogno di codici o di intermediari, in quella dell’Arte, indubbiamente c’è qualcosa che non va. Uno dei due protagonisti è ingrigito, congelato. Solo una paziente ed accurata opera di riesumazione potrà portare la comunicazione a funzionare di nuovo ed a rendere i suoi due protagonisti più simili a Dio.
Lo si potrebbe vedere come un mondo a strati, come una realtà multilivello, nella quale è ancora possibile scorgere sopra e sotto. Nell’Arte questo concetto si esplica tramite semplici espedienti che possono riuscire a comunicare sensazioni di comunanza d’animo. In molti però non si rendono conto di come la realtà multilivello non implichi necessariamente un sopra e un sotto “assoluti”: il viaggio nell’esistente è semplice ricerca, attraversamento talvolta umile, talvolta consapevole ma sempre speranzoso dei gironi del sensibile alla ricerca di una verità più verosimile, di una certezza meno artefatta, di una realtà più intuitiva.
Una veduta sulla città inconsapevole e sul Mare sapiente, la voglia ironica di rivalsa condita da una massiccia dose di amara disillusione. L’inarrestabile circolo, girotondo del reale metaforizzato in un gesto istintivo, inconsapevole, quasi telepatico. La irresistibile necessità di modellare la propria creta, l’urgenza di mostrare alla materia informe un abbozzo di quello che potrebbe essere in potenza, il colosso di Rodi. Si ritorna cosi agli strati ed alle chiusure stagne che inesorabilmente, dicotomicamente separano l’abbozzo dalla materia informe, senza nessuna possibilità di dialogo né tantomeno di comprensione. Qual è allora il mestiere del fabbro, del vasaio? Convincere la materia informe a godere della forma nuova, inusitata dell’argilla: solo invitando e convincendo la materia ad ascoltare si potrà affermare di non aver fallito il proprio obiettivo primario: mostrare una parte di uno degli innumeri “ego” che costellano il nostro multiforme essere. Proprio come un dado dalle molteplici facce: finché non si porterà di nuovo sulla stessa faccia, permettendo a noi e a chi ci conosceva come noi ci conoscevamo, di comprendere in qualità di individui o di artisti. Il giro di questo dado ci consente di non disprezzare o sottovalutare puntualmente ogni nostra capriola: ad ogni modo la testa si sarà portata avanti, leggermente su, anche se questo non dovrebbe essere palese o manifesto. La dignità della capriola è insita nella vera essenza di ogni individuo e lo nobilita, lo rende umano, giustifica la sua altrimenti inspiegabile esistenza. È un giro infantile, bambinesco, inconsapevole. E per questo nobile.
Walt Whitman
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