di Redazione

Questo pezzo vuole essere il prosieguo della interessante discussione che si è instaurata su questo web-journal sui alcuni temi di Architettura e Urbanistica, prendendo spunto dagli sventramenti catanesi del ’54, dalla conseguente architettura ab-soluta di Corso Sicilia, passando per analogia alle genialate delle archistars, il Vitra Design Museum di Frank O’ Gehry e per il supertall skyscraper made in Dubai, la gigantesca Burj Tower. Ringrazio il prof. P. Bellia per i lusinghieri attestati di stima, peraltro assolutamente reciproca.
A proposito di architettura “moderna” ho per i lettori del giornale una chicca: a distanza di un secolo Antonio Sant’Elia, esponente di punta del Futurismo, appare come un visionario, un fuori-posto. Oppure sono le energie odierne ad apparire assolutamente già-viste. Oppure entrambe. Antonio Sant’Elia e la sua nuova rivoluzionaria concezione di metropoli.
La caratteristica più evidente delle opere di questo visionario architetto e urbanista è la completa soluzione da schemi ottocenteschi, soluzione che lo porta a progettare strade a più livelli, edifici che si esprimono in altezza, fortemente interconnessi con l’ambiente ur
bano circostante: la cifra della sua genialità sta nell’aver ideato una città che fosse su misura per l’uomo di inizio Novecento, una città in cui si debba assolutamente trovare una risoluzione armonica che accolga le esigenze del traffico veicolare pubblico e privato, e della circolazione pedonale: risoluzione che non mortifichi le esigenze di ciascuno. Una città moderna, la Milano di Sant’Elia, con una stazione razionale, intelligente, con delle nuove centrali elettriche che assumono la stessa organicità e vivibilità del noto Casamento de La Città Nuova.. Una città vivibile nonostante la “confusione”, una città che scongiura i rischi dell’alienazione, una città che comunica, una città viva che fa della vitalità e della serenità dei suoi abitanti la propria ragion d’essere.
Di Sant’Elia al giorno d’oggi si straparla, si dice di ispirarsi alla sua opera nella costruzione di edifici fascicolati, dal sabòr vagamente goticheggiante, che si sviluppano in altezza per moduli, ma edifici che sono tremendamente ab-soluti, sciolti dal tessuto urbano, hanno la stessa consistenza del Vitra Museum of Design! Sant’Elia e il gruppo dei futuristi avevano pensato ad una città dei collegamenti, una città dei flussi; le nostre archistars sembrano invece più interessate a entrare nel Guiness come “edificio più alto della terra 2009-2015”. Qualche esempio per rinfrescare la memoria:
Cartoline da Kuala Lumpur: Cesar Pelli: Petronas “Twin” Towers, 1998. Piccolo esempio della contraddizioni delle città “moderne” incapaci di interconnettere i propri spazi, e di razionalizzare i flussi urbani. Queste sono le città dell’autoreferenza e del trionfalismo: città insensibili alle esigenze primarie dei propri figli; città che ancora una volta preferiscono apparire piuttosto che essere: la insensata corsa verso i mille metri (oltre al danno la beffa: a117 metri un ponticello connette le due torri…).
Ma le nostre belle torri gemelle asiatiche non sono che uno dei più celebri esempio di questa tendenza generale che ha ormai da tempo proporzioni planetarie: diamo un’occhiata in giro.
Un salto a Pudong, Shanghai. Il posto è assolutamente esemplificativo, non esiste probabilmente un esempio migliore (insieme a Dubai): siamo in presenza di uno sfruttamento intensivo del suolo paragonabile solo alla Manhattan degli anni Novanta: il senso di disagio che si avverte è dovuto alla completa indipendenza di ogni elemento architettonico dall’altro, ottima parabola della indipendenza (o scontro) di interessi degli uomini di questa città, indifferenza e solitudine urbana: la celebre Jin Mao Tower, un obelisco in una piazza, assolutamente sciolto. Unica nota positiva del sistema urbano di Shanghai è probabilmente l’eccellenza dei trasporti pubblici: eccellenza che fa a pugni con l’occlusione mentale dei suoi celebri architetti.
In questa planetaria giravolta fra le trovate da Guinness di celebri architetti e gli scatti di inconsapevoli visitatori non poteva mancare la ormai celebre, sebbene ancora in costruzione, Burj Tower, nel “cuore pulsante del mondo intero”, il “vero e unico ombelico del pianeta”, il ricchissimo emirato arabo di Dubai: obelischi nel deserto, alti ottocento metri. Em
blema del trionfalismo dell’architettura odierna, il progetto del Burj emerge da una sostanziale superficialità di ricerca (da questo punto di vista le Petronas sono più colte) che spinge il progettista a imitare le forme di uno status symbol a costo di disegnare qualcosa di insensato: la Burj Tower non è altro che il simbolo della voglia di qualche nababbo di somigliare al Chrysler degli anni 30 o,peggio, ai petrolieri delle torri gemelle della capitale malesiana.
Tutto questo grande affanno per la conquista del cielo appare agli occhi del sottoscritto privo di interesse perché mancante motivazioni solide. Siamo ancora vittime della suggestione, come gli Egizi di quattromila anni fa, o gli Aztechi o gli Indù … cultori della piramide sacra, simbolo della penetrazione dell’umano nel divino, necessità di accedere al regno dell’oltre, irrefrenabile urgenza di superamento. Confrontando queste con le motivazioni santeliane e del gruppo futurista sembriamo essere regrediti a qualche migliaio di anni fa, ai tempi dei culti fallici e delle superstizioni. Oppure è soltanto culto dell’apparire.
(Ed ora: trova le differenze! Sant’Elia e il Fermilab, Chicago…)
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