Cultura

Pietrangelo Buttafuoco: Lapilli e lava sotto l’Etna

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Questo articolo dove si racconta la guerra delle due Catanie (per non dire delle due Sicilie) è una cambiale. Una di quelle che prima o poi scadrà o si dovrà scontare. Certo, trattasi di una tratta coperta dalla fideiussione di un endorsement già certificato (verso la parte giusta), ma siccome qui si sta accorti a quel che si dice o si applaudisce, poiché si confida del trovare tra i lettori liberi spiriti e non un uditorio di fedeli da edificare a colpi di propaganda, qui si dirà la verità e soltanto la descrizione dei fatti naturali tali e quali.

Qui, insomma, si fa cronaca di un fiero combattimento, quello tra Anna Finocchiaro - la potentemente troppo dolce signora della sinistra assai votata dalla destra, già plebiscitata dai giornali - e Raffaele Lombardo - il meravigliosamente impresentabile candidato alla presidenza della Regione siciliana, assai votato da sinistra, centro e destra, già sfregiato dai buoni nel prenobis degli anatemi -, ma si dà anche notizia, attestazione e proclama di un rovinoso tramonto: quello di Palermo capitale e con lei, la mesta fine politica della seconda delle Sicilie, quella occidentale. Perché definitivamente messa da parte è la città di Palermo con la scelta di Lombardo e Finocchiaro. Sono due catanesi che nel loro trionfare sugli aspiranti al titolo hanno messo tra parentesi l'albagia della capitale: il primo accompagnando in pensione il forzitalista Gianfranco Miccichè, il vicerè che sperava di stare sopra il re; la seconda ridimensionando, spostando, canziando e adducendo a più miti consigli nientemeno che Rita Borsellino, il Simbolo.

Certo, è tutta da digerire questa egemonia dell'Elefante etneo nell'uno e nell'altro campo d'Agramante. Certo, in Sicilia giammai allignò l'odio politico tra l'una e l'altra casacca mentre sacri e inviolabili sono sempre stati i ruoli conclusi nei confini dell'uno e l'altro vallone, vorrà dire che questa volta tutto si deciderà sotto il sole del mar jonico, con Palermo esautorata perché, s'è concesso un paragone caro a quanti (e tanti) hanno studiato a Detroit, se la città della sede regionale è Washington, Catania è pur sempre New York. Insomma, una cosa è Bonn, un'altra è Berlino.

La guerra delle Due Catanie intanto. Due sono i contendenti, due i paladini impegnati nella contesa. E due Catanie, diverse, accompagnano l'una e l'altro. La politica, come ogni forma d'ingegno, vuol dire volontà, carattere e personalità e il signore e la signora sì che fanno ingegno e però coi modi della diversa antropologia: lo charme dell'una contro lo sgrunt dell'altro, occhi scuri contro occhi svevi, la storia del Pci alle spalle di lei, quella della Dc alle spalle di lui. Storie vecchie dell'altrieri, storie di formazione di due universi sempre paralleli, solo che lei ha assecondato un processo della storia interna alla sinistra, lui, invece, è uscito dal seminato: s'è fatto autonomista. E non nel senso del carretto, la storia dell'isola, infatti, gronda di indipendentisti. Nel senso più politico piuttosto, quello d'ingegnarsi a ritagliare uno spazio dove altri hanno già carte in mano.

Due Catanie però. Della Catania stretta intorno alla Finocchiaro s'è già fatta ampia letteratura, perfino maligna se si pensa a ciò che la rivista Micromega ha fatto ritraendo l'ottimo magistrato in una sorta di traffichina della procura, complice della peggiore Sicilia poi se a leggere l'Espresso risulta amica di Salvo Andò, un uomo libero fino a prova contraria. Se ne dovrebbe dedurre che la sinistra giacobina mai e poi mai le darà il voto - sempre se vale la corrispondenza tra le urne e gli umori, i miasmi e i mascariamenti - ma la Catania della Finocchiaro non è quella che si specchia nei brogliacci della questura, tanto quanto non può esserla quella di Raffaele Lombardo su cui però si esercita la stampa borghese, quella di Milano e delle grandi banche (quella stessa che nel giro di quarantotto ore, prima della chiusura dei giochi, di Miccichè ne fa prima santo e poi reprobo), quella che di questo signore così british, il Lombardo ben mascariato, ha già fatto condanna. Dice: è la prosecuzione del cuffarismo con altri mezzi. A parte il fatto che Totò Cuffaro è un amore, in questa orchestrazione affrettata che si consuma su Lombardo assai rumoroso è però il rutto del razzismo. Prestate orecchio all'eco: e se mangia cannoli, perché mangia cannoli. E se non li mangia, perché non li mangia. E se bacia e bacia, perché bacia. E se non bacia, perché non bacia. In effetti Lombardo non bacia. Non mangia ricotta, non sputa canditi e di proseguire il cuffarismo quanto ad entusiasmo e facilità di rapporti manco a parlarne. Se la Finocchiaro è forte d'endorsment, Lombardo sovrabbonda di presenza nel territorio. Se va a Librino, il quartiere pop, Librino si ferma. Se va in aeroporto, una fila interminabile di salutanti astanti sosta in paziente attesa di una stretta di mano, di un cenno, di una benedizione e la fila è perfino doppia di quella dei chek-in, sono i tanti beneficiati che hanno ricevuto da lui nomine, collocazioni e posti. O che sperano di avere, come alcuni impresentabili campioni della più sfasciata malasanità, sostegno e indulgenze. Forte di presenza è nel territorio, il Lombardo, solo che se lo fa lui il presenziare nominando è un don (leggasi mafioso o, in dolce eufemismo, mascariato), se lo fa un plenipotenziario socialmente presentabile invece - come lo fanno geometricamente il Monte dei Paschi di Siena a Siena, le amministrazioni in Emilia-Romagna, in Toscana e in Umbria dove perfino la distribuzione della carta igienica è lottizzata, anzi, nominata - è sana gestione della cosa pubblica. Un esempio personale noi lo possiamo fare proprio perché l'endorsment è bello che fatto e perché questo pezzo che state leggendo è una cambiale prossima a scadere e a scontare, ma del Teatro Stabile di Catania, giusto per fare l'esempio personale, a parte lo scrivente che è presidente e pazzo, i massimi vertici sono per fortuna uno di sinistra e l'altro pure, e noi che perciò lo conosciamo bene Lombardo sappiamo quanto questo suo pacato accoramento dell'uomo che non riesce a distrarsi in vani divertimenti, in cicalate, in ozi e trattenimenti per dame e colti signori, gli precluda poi la strada della presentabilità sociale. Magari i giornali e le banche lo sfregiano in largo anticipo per mettergli in testa l'ipoteca giustizialista visto che - stando ai sondaggi e alla folla di chi gli corre incontro - vincerà le elezioni, oggi domani un concorso (è il caso di dire), un'inchiesta può sempre sbocciare, magari il razzismo contro il politico meridionale, anche quando sfugge al clichè, british com'è, è un tic troppo inflazionato per privarsene, qualcuno ha perfino scritto di Lombardo: "Ex carcerato". Fatto è che al netto di dovute celebrazioni, anche Anna Finocchiaro sotto sotto viene mascariata, insinuata, sporcata ma questa volta da una sinistra che non sa sfuggire all'abitudine masochista e trista. Giusto adesso che la Borsellino, quale Saffo cui non resta altro rifugio nell'Erebo, conclude il rito dell'emergenza morale - un nuovo surrogato dell'esorcismo diocenescampi l'insorgere dell'etica - tra le retrovie delle liste è finalmente sbollito il nauseabondo risotto della diffamazione tronfia e sanguinolenta. Magari continua nei giornali il nefasto passatempo ma con l'egemonia di Catania il gioco dei corvi mascariatori non funziona più. Questa è guerra delle Due Catanie per l'appunto, una città dove Enzo Bianco e Umberto Scapagnini non si guardano in cagnesco, ma sempre benevolmente compenetrati nel gioco delle parti, così come quel galantuomo di Giovanni Burtone, parlamentare della Margherita, mai ostile verso chissamai. E' la guerra delle Due Catanie ma per non dire delle Due Sicilie, perché con la messa in soffitta di Palermo si chiude una stagione d'intossicazione, quella che vede nella Sicilia un poggiapiedi da cui attingere pane e veleni. Certo, l'esempio è nobile, nasce con Federico II imperatore che portava i suoi arabi in Puglia per usarli contro la chiesa, quindi prendeva denari e uomini dalle Madonie per scagliarli contro i tedeschi e, infine, contro i comuni. Faceva, insomma, l'ascaro di se stesso Federico, da degno palermitano s'intende, così come fanno i politici palermitani, e lo diciamo sottovoce senza nulla togliere alla grandezza di Federico e all'abitudine dei Federico di oggi, ma la storia è sempre quella delle lunghe durate. Chissà che i palermitani non siano ancora quegli stessi visti da 'Al Muqaddasi, rintronati e impuzzoliti da tutta la cipolla cruda ingurgitata tra un ragionamento e l'altro? E per non dire della guerra delle Due Sicilie si deve però riconoscere che col tramonto della capitale si mette fine all'antica gara. Grazie ad Anna, grazie a Raffaele, ha vinto Catania. Non c'è campo né versante dove lo zolfo etneo abbia tralasciato di apporre suggello. In Confindustria per esempio, la dove signoreggiava Ettore Artioli, l'uomo di Leoluca Orlando, adesso trionfa Ivanhoe Lo Bello, siracusano in verità, ma orientale di orientalissima schiatta tanto quanto schiacciata dal peso occidentale è Palermo. La Forza Italia che conta di più è quella del senatore Pino Firrarello e Giuseppe Castiglione e non - come s'è visto - quella del Miccichè. La stessa Udc di sostanza non è palermitana; è quella di Raffadali, quella di Totò Cuffaro e l'ex governatore di Sicilia, con i catanesi s'intende, non con i palermitani e tutti i guai di Pierferdinando Casini a Catania si confezionano.

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E' guerra delle Due Catanie, in più grande guerra: quella delle Due Sicilie. Perfino i sindacati hanno perso la centralità panormita, da unitari non sono più unitari, ormai anche nella triplice hanno preso il sopravvento i catanesi e quella grande indicibile, irredimibile, perfino invincibile specialità di Palermo, la Mafia, è sfumata, s'affumò, sprofondò nel più piccolo dei Lo Piccolo. Ma dove e come poteva durare anche questo stesso vantaggio se la Mafia infine, quella palermitana, così crudele, non poteva certo vantare un episodio di fatto naturale tale e quale come quello che vi raccontiamo adesso, un episodio assai significativo. Porta per protagonista un grandissimo della critica, uno storico della letteratura (va da sé catanese) qual è Salvatore Silvano Nigro - oggi docente alla Normale di Pisa e alla Yale University - e se la storia affonda nei ricordi di anni e anni fa (neppure troppi, qualche decennio) vale la pena raccontarla perché la dice lunga sulla differenza tra quella Mafia e questa, una differenza di stile.
Prestate orecchio. Squilla il telefono di casa Nigro: "Pronto, parlo col professore Nigro?". "Sì". "Buonasera professore, sono Nitto Santapaola, lei mi capisce…". "Capisco". "Domani professore, verrà a fare esami da lei una mia nipote, lei mi capisce…". "Capisco". "Ci siamo capiti". Clic.

Prestate attenzione, l'indomani si presenta agli esami una bella ragazza di razza normanna, bionda come il grano ma impreparata come una pala di ficodindia. Il nostro Silvano comincia l'esame con una domanda facile facile: "Allora, il nome di un poeta che nasce a Firenze. Da-da-dan…". Niente, la ragazza sta zitta. "Allora", continua Nigro, "C'è un poema famoso, assai famoso. Tre cantiche: Inferno, Purgatorio e Pa-pa-pa-ra-ra…". Niente, la ragazza è immobile, non muove labbro, non spiccica parola. L'esame è pubblico e Nigro non può certo forzare la situazione, alza l'ingegno e si prende il libretto della ragazza. "Senta signorina", le dice, "adesso le metto il voto". A quella sembra di ritrovarsi nel libretto un trenta e lode. "Non ha capito signorina", le spiega Nigro, "questo è un tre e lode. Tre per l'esame, la lode per lo zio".
Prestate attenzione: il pomeriggio Nigro ritorna ai propri libri, squilla il telefono e una voce da gatto gli dice: "…ma allora lei, professore, è spiritoso. Mi piace!". Clic. Presi dal racconto, tutti gli amici abbiamo poi chiesto a Nigro il "come finì?", glielo abbiamo chiesto fino all'altrieri. Risposta: "E se sono vivo, vuol dire che ha apprezzato lo spirito".

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Questo articolo dove si racconta la guerra delle due Catanie (per non dire delle due Sicilie) è solo una cambiale. Una di quelle che prima o poi scadrà o si dovrà scontare, lo ripetiamo, ma è anche un pezzo dovuto perché veramente questa campagna elettorale per la presidenza della Regione ha cambiato i connotati all'isola. Tutto ruota intorno a Catania. Perfino Santa Rosalia - mentre Sant'Agata s'è buttata nel culturale, carica com'è di indagini antropologiche, di mostre e di successi mondani - perfino la Santuzza è stata messa sotto tono col Festino che non taglia più i traguardi della presunzione, ma senza toccare i santi, per restare in tema di fanti, non c'è gara. Già solo nella musica, con Franco Battiato, Carmen Consoli e Roy Paci, non c'è manco modo di dare inizio alla tenzone. Uno a zero per Catania. Se nella ricerca storica a Palermo c'è Francesco Renda, a Catania, fermi tutti, c'è l'elenco di un pantheon: Rosario Romeo, Concetto Marchesi, Carlo Muscetta, Santi Mazzarino. Nessun grande scrittore siciliano è palermitano, quando gli va bene, sono di Agrigento o di Porto Empedocle. Lo stesso Ciullo è di Alcamo. Nessuno tra i direttori di giornale di Palermo è stato all'altezza di Alfio Russo e di Candido Cannavò, certo Gianni Riotta fa il Tg1 ed è un uomo di mondo e non rinnega gli amici, la stessa cosa non si può dire di Alfio Caruso che invece, nel tentativo quasi palermitano di aggiustare la propria biografia, nega di essere stato compagno di scuola di Raffaele Lombardo (uno sezione A, l'altro sezione B), ma un Caruso non può far dimenticare che il quotidiano di Catania La Sicilia rischia di vincere la battaglia delle edicole con Il Giornale di Sicilia.

E' la guerra delle Due Sicilie. Il più grande cuoco di Sicilia non è Filippo La Mantia, il più grande e grandissimo è Carmelo Chiaramonte, chef degno di Efesto, officiante al Katane. Tutto, insomma, deriva da Catania: Pippo Baudo è di Catania e il Festival di Sanremo è bellissimo. Se cala di share è colpa dei palermitani che vanno spegnendo i televisori. Ma intanto anche Fiorello è di Catania, è orientale, e solo Ficarra & Picone sono di Palermo ma, concedeteci la soddisfazione, lavoreranno a Catania.

Guerra delle Due Catanie è questa, ovvio, e oggi ve l'abbiamo sciorinata ma solo perché - per dirla tutta - su ogni altra cosa è importante la guerra delle Due Sicilie. E giusto perché non possiamo non rendere omaggio al conflitto d'interessi non dobbiamo certo qui far finta di niente e quando le cose si devono dire, si devono dire e qui lo proclamiamo: lo Stabile di Catania, non ce ne vogliano Pietro Carriglio e i suoi più stretti familiari, è di gran lunga più importante dello Stabile di Palermo. Vincenzo Pirrotta, palermitano, il più grande attore dionisiaco di lingua pirandelliana, infatti, lavora a Catania, dove tutto è teatro. Figurarsi la guerra. A Catania dunque si consumerà il duello di una signora e di un signore, i collegamenti televisivi si dovranno fare per forza in via Etnea e siccome qui si sta accorti a quel che si dice o si applaudisce, non si dice e non si applaudisce, ci si gode lo spettacolo.


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