di Redazione

E’ tardi, quasi mezzanotte…
Guardando fuori dalla finestra verso il cielo, non si direbbe affatto. Le notti più o meno bianche sono cominciate da un pezzo. Per vedere le stelle, di questi tempi, ce ne vuole!
La volta celeste rimane praticamente celeste per buona parte della notte, se così si può chiamare la notte di giugno a Mosca.
A farla breve, una cenetta ci sta anche a quest’ora. Insalata russa.
Una delle mie preferite è la “pikantnaja”, che di piccante ha soltanto il nome: carote alla julenne, uova, maionese e, ovviamente, aglio.
Perché i russi mangiano tanto aglio? Ho chiesto lo scorso anno a Masha dopo aver notato che il suo sapore lo si ritrova spesso. «Perché fa bene: allontana la febbre!»
E perché si fa un così largo uso di cetrioli?
Masha ha fatto spallucce:«Sono freschi!»
Ok, ma a gennaio sono anche congelati!
Di nuovo spallucce: «Non lo so…piacciono…»
Piacciono, sì. Tanto. Freschi, marinati, a fette, a striscette, a cubetti, piccoli, medi, i cetrioli (che in russo hanno un nome curiosissimo, gli “agurtsì”) sono onnipresenti, un po’ come l’aglio.
Perché mi dilungo così tanto su cetrioli e aglio? Perché a me fanno entrambi un male da morire, almeno in Italia.
Sarà la latitudine o la necessità, qui il mio stomaco ha imparato a tollerarli. E, insieme a quelli, si è abituato ad accettare ben altri mattoni.
Colazione a Scicli: caffè, cappuccino, brioche, cornetto; al massimo un buon panino con la mortadella.
Colazione a San Pietroburgo all’hotel “Sputnik”: patate fritte, würstel lessi, crêpes imburrate, frittata di uova e riso, kasha (una sorta di polenta dolce) con uvetta sultanina, salumi vari, pane bianco, pane nero, pane al coriandolo, ai semi di girasole…insalata di pomodori e cetrioli!
In genere schivo la colazione ma è troppo eccitante poter mettere tutti quei cibi insieme e pensare “Arriverò viva al pranzo?”. In realtà, si arriva tranquillamente anche alla cena.
A proposito di cena, ho avuto la fortuna di ricevere, qualche tempo fa, un invito da una signora moscovita.
Non riuscivo neanche lontanamente ad immaginare cosa avrei trovato sulla tavola e, a dirla tutta, ne avevo un po’ il terrore: un’aringa affumicata? Patate alla contadina, ossia lessate con tutta la buccia? Zuppa di barbabietola?
La luce giallognola illuminava un desco familiarmente accogliente; i bicchieri la dicevano lunga: ce n’erano di misura regolare, tutti diversi tra loro, e altri piccoli, da cicchetto.
La babuska, una donna dall’età indefinita tra i 45 e i 65 anni, aveva un abito azzurrino piuttosto fuori moda e tuttavia dignitosamente ed elegantemente indossato. I capelli canuti raccolti in modo composto dietro la nuca, la pelle porcellanata. Una smagrita matrioska.
«Ho preparato tutto con le mie mani; tutta roba fresca!», ha tenuto a sottolineare.
Odori di rinchiuso, di oggetti pre-perestrojka, di cibo…buono.
Insalate russe.
C’erano anche l’aringa e la barbabietola in un groviglio di colori che andava dal marroncino del pesce (ingoiato cercando accuratamente di evitare il contatto col palato) al bianco della maionese, al giallo del tuorlo d’uovo fino all’amaranto della barbabietola. I bicchierini servivano ad assaggiare la vodka al peperoncino esibita dal figlio come la chicca della serata.
Rinunciare alle lasagne al forno o alla pastasciutta col sugo di carne di maiale è dura!
La pasta, i “makaronj” – come viene genericamente chiamata qui – può essere un contorno alle polpette di carne o ad anomale cotolette che poco ricordano quelle a me care. Il sugo vi scivola miseramente sopra come l’olio e, se lo si riesce a raccogliere sul fondo del piatto annaspando pazientemente col cucchiaio, si scopre con un pizzico di delusione che nulla ha da spartire con quello sapientemente preparato dalle mamme sciclitane la domenica mattina quando il suo profumo pervade le viuzze secondarie della Strada Nuova.
Mi sono abituata un po’ a tutto: dalla focaccia kazaka al tè durante i pasti; non disdegno il cibo giapponese che alterno alla cucina ucraina e a quella libanese. Spesso faccio una capatina in una pizzeria francese spacciata per italiana.
Ogni tanto me la rido pensando a un mio compaesano, di quelli buongustai, a tavola da queste parti. Immagino con facilità l’occhiata scettica che getterebbe su un piatto di “pel’menj” (i tortellini russi) conditi con panna acida, il gesto lento di portarne uno all’altezza delle narici, di annusarlo inarcando le sopracciglia, e quello diffidente di assaggiare la panna con la punta della lingua prima di addentare con cautela l’estraneo boccone. Per poi scoprire che, in fondo, non è male.
Le nostre abitudini alimentari, alla fine dei conti, possono essere mantenute, se ne si ha voglia. Non è difficile trovare, un po’ ovunque, cibo cucinato all’italiana…basta semplicemente convincersi che, giusto quel giorno, il cuoco ha deciso di dare un tocco diverso alla pietanza tradizionale, che ha finito la riserva di olio extra vergine di oliva e che doveva smaltire un’eccedenza di aglio e, possibilmente, di cetrioli.
Dasvidanija
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