Il velo sulla deriva del welfare, squarciato da una mamma di Gravina di Catania
di Giuseppe Gaetano

Gravina di Catania – “È possibile che una bambina sulla sedia a rotelle, con una disabilità grave, abbia un’assistenza igienico personale di sole tre ore a settimana? Accade a mia figlia, che frequenta la scuola primaria: fino all’anno scorso le ore erano 15 a settimana, ma ora il Comune le ha ridotte adducendo come giustificazione la mancanza di risorse economiche. È chiaro che chi prende certe decisioni non ha idea di cosa significhi non essere autosufficienti”.
La lettera inviata da una mamma a Repubblica è solo una delle tante segnalazioni della disgregazione del welfare siciliano, in tutte le parti dell’Isola. Se consiglieri, assessori, governatori, parlamentari e dirigenti pubblici di tutta Italia guadagnassero un po’ meno degli oltre 10mila euro che portano a casa ogni mese (più extra delle attività professionali che continuano a svolgere insieme), forse troveremmo qualche soldo più da destinare all’assistenza sociosanitaria? A cos’altro servono, altrimenti, le tante imposte pagate? Incluse quelle senza ricevere un servizio in cambio, ma basate solo sulla proprietà (e dunque finte patrimoniali) come Imu, bollo auto, cedolare sugli affitti, oneri extra sulle bollette.
Tutti denari versati ogni anno da milioni di contribuenti, fuori da modelli 730 e 740, per confrontarsi con uno Stato non solo assente dai problemi dei suoi cittadini, ma spesso e volentieri causa stessa di tali criticità. Luoghi comuni, si dirà. Eppure se sono diventati tali è perché al fondo conservano un nucleo di verità, su cui troppo facilmente si passa sopra, liquidando le questioni che sollevano come qualunquismo. Parliamo di servizi agli studenti che dovrebbero essere “integrativi, migliorativi e aggiuntivi” a quelli base, già carenti. Le coperte sono sempre troppo corte per i bisogni reali della gente, eppure sembrano allungarsi magicamente se si tratta di finanziare progetti faraonici come il ponte sullo Stretto (quando ancora si devono finire le autostrade).
La storia della bimba catanese è emblematica del dissolvimento di un compito essenziale dello Stato, che impone a genitori sfortunati il passaggio attraverso le forche caudine delle certificazioni Uvm – comprovanti lo stato di assoluta necessità – per vedersi riconoscere alla fine il nulla: tre ore di aiuto a settimana. Tocca ritrovarsi allo stremo per ricevere – dopo il calvario di burocrazia, che costringe a rivolgersi ad avvocati e commercialisti per ogni pratica – non una mano tesa ma un mignolo, beffardo, che sa quasi di scherno. Non tutte le famiglie possono permettersi di aspettare i tempi biblici delle Asp o di pagare pure uno specialista privato per ottenere l’attestato di grave disabilità del figlio. Già, il privato. Subentrato ormai in tutto al pubblico, come negli Usa. Anche nei settori che dovrebbero essere più tutelati e garantiti in una democrazia: salute e istruzione.
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