L'incolore «L'albergo della felicità»
di Franco La Magna
Finita l’età del muto (1930), una poco significativa presenza “catanese” contrassegna tutto il ventennio fascista.
L’incolore «L’albergo della felicità» (1935) – ambientato fra Trecastagni (ma girato a S. Giovanni La Punta), Siracusa e Venezia, opera prima del giovane regista messinese Giuseppe Vittorio Sampieri, con Turi Pandolfini, gustoso e inconfondibile attore nipote di Angelo Musco – precede d’un soffio il centesimo della morte di Vicenzo Bellini.
Il biondo compositore offre al “maschio” paese delle parate in orbace l’opportunità di approntare (ma ben lontano da Catania) una sua prima fumosissima biografia: «Casta Diva» (1935) regia del “mussoliniano” Carmine Gallone, sceneggiata dal tedesco Reisch, protagonista l’impacciatissimo catanese Sandro Palmieri, subito sprofondato nell’oblìo. Grande spreco di lodi della critica e plausi esagerati a Martha Egger, soprano leggero ungherese, nei panni dell’infelice Fumaroli.
Qualche anno dopo una colorita e folcloristica «Cavalleria rusticana» (1939) del quasi siculo Amleto Palermi, sceneggiata da Pier Maria Rosso Di San Secondo, ammannisce un’abile ma manierata fusione di musiche, canti, costumi e scene di vita paesana finalmente in territorio isolano (soprattutto Paternò), con un provato e blasonato cast d’attori alla cui testa spicca Carlo Ninchi.
All’indomani della sanguinosa disfatta dei sogni di gloria del nazifascismo, primo ritorno di fiamma nei luoghi etnei è il “remake” sonoro di «Malia» (1945), opera d’esordio del regista “indipendente” Giuseppe Amato, tratto dalla novella di Capuana, storia d’un singolare caso d’un capovolgimento amoroso e capolavoro recitativo di una straordinaria Virginia Balestrieri nei panni della fattucchiera Caristia. Nastro d’argento per la miglior colonna sonora, il film rivela le doti drammatiche della giovane Anna Proclemer da lì a poco sposa di Vitaliano Brancati, chiamato a supervisionare i dialoghi.
Galeotto fu il film…
E proprio nell’Italia ancora fumante di macerie belliche, ecco finalmente emergere clamorosamente la vena cinematografica del “pachinese” Brancati, già dal 1940 poco attenzionato sceneggiatore. Primo capitolo della cosiddetta “trilogia dell’impegno civile”, colma di satira dura, spietata, «Anni difficili» (1948) di Luigi Zampa – girato a Modica e tratto dal suo racconto “Il vecchio con gli stivali” – sciorina come in crescendo d’opera le tragicomiche avventure di un povero impiegato avventizio antifascista del comune di Modica (Umberto Spadaro) – disgraziato travet di gogoliana memoria – perentoriamente licenziato all’indomani della liberazione proprio dall’ex potestà (Enzo Biliotti), sempiterno italico campione di trasformismo ora sindaco del paese. Mutatis mutandis…
Nel cast Massimo Girotti, Ave Ninchi e Delia Scala.
E Catania? Alla fine degli anni ’40 il grande cinema torna a lambire la città etnea, quando uno dei grandi padri del neorealismo, il “comunista-aristocratico” Luchino Visconti, riappropriandosi in modo personalissimo della narrativa siciliana e spingendo fino al parossismo l’estetica neorealista, gira in un’ancora incantevole, incontaminata e miserabile Aci Trezza, che diventa set in tutto il suo territorio, «La terra trema» (1948), capolavoro dei capolavori neorealisti, attingendo viva e palpitante materia narrativa da “I Malavoglia”di Verga (storia della povera famiglia Valastro sfruttata dai grossisti del pesce), ma ribaltandone il cupo fatalismo con l’applicazione di un impianto ideologico di matrice gramsciana: fine del ribellismo individualista e nascita della coscienza di classe.
Molti gli attori presi dalla strada, tra cui le due sorelle Giammona, che rifiutata una (forse) promettente carriera cinematografica rientrano frettolosamente nell’anonimato. In quegli anni Catania, dunque appena sfiorata dall’aspetto drammatico del neorealismo, conquista inaspettatamente il primato di “patria” del “neorealismo rosa”.
Renato Castellani con il divertente «E’ primavera» (1949), pur mantenendo ancora i canoni estetici neorealisti, ne inaugura il lucroso filone proprio nel cuore della città (buona parte delle sequenze si svolgono in piazza Dante), con la storia a lieto fine d’uno sballonato ma simpatico bigamo. L’inossidabile Carmine Gallone, decano dei registi italiani abilmente riciclatosi dopo una farsesca epurazione lampo (come buona parte di artisti e maestranze uscite indenni dal fascismo), ripiomba fragorosamente in Sicilia con un fremente «Cavalleria rusticana» (1953), parzialmente girato tra le province “deputate” di Siracusa (Noto) e Catania (Vizzini), protagonista Anthony Quinn, addirittura cantante (con voce di Tito Gobbi) nei panni calzanti di compare Alfio.
Un film elaborato secondo una particolare tecnica tridimensionale, ma immesso poi sul mercato solo con l’abbinamento del documentario «Terra di Verga» del regista documentarista catanese Ugo Saitta.
Trascorsa altresì velocemente la straordinaria stagione neorealistica, in piena age d’or democristiana, un gustoso affresco catanese offre l’esilarante e amarissimo «L’arte di arrangiarsi» (1954) di Luigi Zampa, indimenticato, ultimo e postumo film tratto da Vitaliano Brancati (soggettista e sceneggiatore, morto a Torino l’anno prima), una vera e propria summa degli inestirpabili vizi nazionali e prodotto ancor oggi godibilissimo, ambientato e girato a Catania (solo la prima parte), con il già straordinario e inimitabile protagonista, Alberto Sordi nei panni d’uno spregevole tartufo locale che (a volte se non la giustizia umana, colpisce quella nelle cose) finisce ingloriosamente la carriera come imbonitore di piazza. Location a iosa: da Palazzo Biscari al “Fortino”, da via Crociferi a piazza Dante.
Nello stesso anno l’immarcescibile Gallone crea l’autoremake di «Casta Diva», con uno spocchioso Maurice Ronet, nei panni del “Cigno” di Catania, ma lontano dalla città natale e innamoratissimo della sua morente napoletanina Maddalenina, nella vita reale ben presto dimenticata. Tramontato in pochi anni il neorealismo subito trasformatosi nella versione “rosa”, Catania si prepara ora a vivere la lunga e “gloriosa” stagione dell’eros (mito inventato soprattutto da Brancati e Patti) e, in tono minore rispetto a Palermo, quella cruenta delle coppole storte.
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