Cultura
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26/09/2010 18:32

Citati: Leopardi, malato e moderno

«Ho cercato di far coincidere la vita, l'analisi delle opere e molti fondali»

di Redazione

E’ stato un libro molto difficile e faticoso – ammette il critico e scrittore Pietro Citati – e a opera conclusa, anche per me è stato dolce naufragare nel mare leopardiano».
Per scrivere l’imponente e dettagliato libro dedicato a “Leopardi” (Mondadori, pagine 444, € 22), Citati ha lavorato alcuni anni con entusiasmo ma anche con qualche scoramento quando il materiale sul poeta sembrava sopraffarlo. Mescolare vita e opere per rendere quel «perpetuo circuito di produzione e distruzione», in cui uomo e poeta interagivano, è stata una lotta immane che ha prodotto una biografia critica in cui s’addensa tutto il vortice della poesia e l’indomabile forza della parola leopardiana.
Citati, perché questo libro l’ha stancata più dei precedenti dedicati a Goethe, la Mansfield, Kafka e altri ?
«Perché ho cercato di raccontare la vita di Leopardi con molte novità. Tutto quello che viene detto sulle malattie del poeta sono cose completamente nuove che nessuno aveva raccontato. Poi ho cercato di analizzare i suoi testi: non tutti, alcuni Canti, alcune Operette morali, Memorie del primo amore, lo Zibaldone. Ho cercato di far coincidere non solo la vita di Leopardi con l’analisi delle sue opere, ma anche molti fondali».
Quali fondali?
«Nel libro c’è tutta la misticità classica con l’idea della luna e del grande anno che ritorna; c’è Rousseau che è uno dei grandi maestri di Leopardi; c’è Chateaubriand, c’è Rossini, un musicista che Leopardi e tutta la sua famiglia amava moltissimo; c’è qualche scorcio di città: uno di Pisa, in cui Leopardi vide un’altra Recanati, un ritratto di Roma che un po’ odiava, e di Napoli verso la quale nutriva un affetto contraddittorio». 
Sempre ammalato, come faceva a creare opere straordinarie?
«C’era in Leopardi una specie di insensibilità al dolore. Nel 1819, anno terribile per lui, l’anno della fuga, scrive l’Infinito, una poesia dolcissima che non lascia trapelare nemmeno l’ombra di un dolore. Leopardi soffriva ma aveva anche la capacità di dimenticare e superare la sofferenza». 
Di che cosa soffriva veramente?
«Da ragazzo, studiava di notte disteso a terra finché il lumino si spegneva, E stare disteso a terra non faceva bene alle sue spalle. Da lì vengono la gobba e la convinzione che la ridotta crescita – era alto un metro e 41 centimetri – fosse colpa sua perché aveva studiato troppo. In realtà non è vero niente. Leopardi ha una gravissima malattia di cui non è assolutamente responsabile: ha la tubercolosi ossea. Questa malattia è mimica, assume tutte le forme, come la malattia degli occhi. Lui non poteva sopportare il sole e negli ultimi anni della vita dormiva durante il giorno e stava alzato la notte. Anche l’asma, e tutte le altre, infinite malattie che ha avuto, erano conseguenza della tubercolosi ossea. E questo non lo sapeva. E’ stato uno sventurato che ha avuto questa tremenda malattia».
Era conciato davvero così male?
«Sì, ma non basta. Soffriva anche di quella che noi chiamiamo depressione in modo estremamente grave. E ciò si desume chiaramente dalle lettere che scrive a Giordani a 18 anni: avevano l’andamento ciclico delle depressioni». 
Parlando delle “Ricordanze”, lei fa un riferimento alle “Recherche” di Proust. Avevano qualcosa in comune questi due grandi scrittori?
«Il tema della memoria è capitale per Leopardi come lo è per Proust. E’ una grande fluttuazione, ma c’è una differenza con Proust che ha dei lampi di memoria che avvengono nel passato e poi ritornano nel presente. Passato e presente si identificano e producono l’eternità della memoria. Questa eternità salva Proust da tutti i dolori e le angosce della vita e gli permette la felicità. In Leopardi invece non c’è nessuna eternità della memoria. Nelle Ricordanze ricorda quando bambino giocava e quando, tanti anni dopo, parlava con le stelle e tutte queste cose si identificano, ma non producono l’eternità né la salvezza perché in Leopardi non c’è Dio. In Proust l’eternità è sempre una dimensione metafisica. In Leopardi, quasi sempre manca la dimensione metafisica. Questa è la differenza capitale fra i due».
I conflitti con il padre che origine avevano? 
«Monaldo, sebbene fosse un uomo meschino e gretto, aveva un grandissimo amore per il figlio, e non voleva che se ne andasse da Recanati: voleva che «fosse in ciò che è di suo padre», ripetendo così una frase del Vangelo di Luca. Quando Maria e Giuseppe arrivarono a Nazareth e si resero conto che Gesù non era con loro, tornarono a Gerusalemme, e lo trovarono che discorreva con i dottori nel Tempio. Si lamentano di essere stati abbandonati, Gesù si irrita e dice loro: “Lasciate che io sia in ciò che è di mio padre”. Ciò che è di Dio è il Tempio, e Monaldo ripete le stesse parole, perché la biblioteca che aveva costruito con tanta fatica per Giacomo era l’equivalente del Tempio per Gesù. Lontano da casa Leopardi si sente spaesato senza Monaldo, ma ciò non gli impedisce di dirgli che non ha più fiducia in lui, e che non era in grado di rinnovarla. Ma non dice come la fiducia sia finita».
Forse perché Monaldo aveva ostacolato la “fuga”?
«Non credo che fosse la fuga, ma qualcosa di più antico ancora, che aveva fatto sì che la fiducia di Giacomo sia venuta meno. Forse era impossibile per lui avere la totale confidenza o il totale abbandono del padre».
L’amicizia ebbe per Leopardi molta importanza, soprattutto per Giordani e Ranieri. Perché aveva tanto bisogno d’affetto??
«Quello per Giordani e per Ranieri era un grande amore anche se non aveva nessun aspetto sessuale. Lui si innamorava nel senso più alto dell’amicizia che era fratellanza allargata alle più grandi considerazioni dell’anima. Teniamo poi conto che quel periodo era dominato da Rousseau che determinava in un certo modo le forme di eros. L’amore, spesso era una cosa tremenda. C’era di solito una donna sublime che ispirava quest’amore, ma praticarlo era un peccato, perché la donna era sempre una madre e qualsiasi forma d’amore era sempre incestuosa». 
Sarebbe il grande poeta che è se non avesse avuto una vita così dura e difficile?
«La sofferenza era innata in lui e pensava che niente di grande poteva nascere se non c’era sofferenza. Non saprei dire se la sofferenza abbia aumentato la sua grandezza, ma di certo la sua grandezza è fatta anche di tanta sofferenza. Dopo di lui l’Italia non ha più prodotto un grande moderno».