Cronaca
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24/08/2021 10:20

Vanessa uccisa anche dai giudici, che non pagano mai

Gip senza esperienza e formazione specifica, corresponsabili dei femminicidi

di Giuseppe Gaetano

Vanessa uccisa anche dai giudici, che non pagano mai
Vanessa uccisa anche dai giudici, che non pagano mai

 Catania – Da una parte le forze dell’ordine, che rischiano la vita per assicurare i criminali alla giustizia. Dall’altra i giudici che, spesso in maniera del tutto discrezionale, li rimettono in libertà qualche giorno dopo, senza perizie psichiatriche o ulteriori accertamenti, accontentandosi di dirgli “non lo fare più” . Come si sta sentendo oggi quel gip che ha rimesso in libertà Tony Sciuto? Prova almeno un po’ di senso di colpa per non aver capito nulla ed aver fallito il suo lavoro, senza peraltro pagarne alcuna conseguenza e restando nell’anonimato? Quando qualche giudice, molto raramente, esce allo scoperto e sente la necessità di difendersi in genere è per scaricare la responsabilità sulla legge, che si sarebbe limitato ad applicare. Non è vero. La legge va calata nelle fattispecie, non prescinde dal caso specifico che ha di fronte in quel momento e lascia ampio margine all’interpretazione, fidandosi dell’applicazione che ne danno i suoi rappresentanti e le sue istituzioni.

Quello di Vanessa Zappalà è solo l’ultimo della quarantina di femminicidi annunciati e dunque evitabili, commessi in tutta Italia da inizio 2021. Numeri da strage. “La sua morte è una sconfitta per lo Stato” si sfoga con i media Carmelo, il padre della 26enne uccisa dall’ex fidanzato: “Aveva pianificato tutto, continuava ad essere accecato dalla gelosia, non si rassegnava alla fine di una relazione. Abbiamo scoperto che aveva piazzato un Gps sotto l’auto di Vanessa e che era riuscito a intrufolarsi nel giardino di casa nostra, per sentire cosa dicevamo, attraverso un tubo”. Nemmeno questo è bastato per tenerlo chiuso in casa. “Quel che mi addolora di più – continua il genitore – è che tutto questo si sarebbe potuto evitare se lo avessero arrestato dopo la denuncia: perché quel giudice non ha convalidato l’arresto, come chiedeva la procura di Catania?”.

Forse, di fronte a tanta follia, neanche i domiciliari sarebbe serviti: il killer avrebbe potuto evadere e poi suicidarsi in qualsiasi momento. Figurarsi col semplice divieto di avvicinamento, senza nemmeno la misura del braccialetto elettronico. Costano cari questi braccialetti? Servono più uomini in polizia e carabinieri per controllare tutti quelli al polso, in giro per il Paese? Ma poi, si fa sempre in tempo a intervenire quando dalla centrale ci si accorge che il segnalato si sta spostando fuori dai confini? Probabilmente ci sarà anche questo nella facile liquidazione delle tante, troppe denunce per stalking da parte dei giudici.

“L’avevamo pure accolto per due mesi – prosegue Carmelo -, era un uomo con due facce: apparentemente tranquillo, in realtà era un mostro. Quando dopo botte e parolacce mia figlia l’ha mollato, quando io gli ho tolto le chiavi di casa, ha cominciato ad appostarsi per ore sotto le finestre o davanti al panificio dove Vanessa lavorava. Con un duplicato delle chiavi la sera si intrufolava nel sottotetto di casa mia, una sorta di ripostiglio, e dalla canna del camino ascoltava le nostre chiacchiere”. Come fanno i giudici a capire che in realtà “covava dentro la vendetta”? Come rendersi conto se hanno di fronte uno psicopatico? Di quali servizi dispongono per valutare bene, caso per caso, un soggetto potenzialmente omicida tra quelli che si trovano di fronte ogni giorno?  

Il maresciallo ha dato il suo cellulare a Vanessa, per difenderla anche dalle sentenze dei giudici: a differenza loro sapeva che Sciuto non si sarebbe fermato. Lo sapeva per la maggiore esperienza coltivata sulla strada, a contatto diretto con gli episodi di cronaca nera. “Chiamami in ogni momento, notte e giorno se c’è bisogno”. Prontissimi tutti i carabinieri, non altrettanto la giustizia italiana: l’inasprimento delle pene non si è dimostrato un deterrente efficace per persone malate di mente, che infatti spesso dopo si tolgono la vita. Neanche la minaccia della pena capitale, come emerge nei Paesi dove è in vigore, serve a fermare la mano di chi ha perso la testa.

La prima arma è sicuramente l’educazione, che comincia in famiglia e prosegue nelle amicizie e nella scuola. Ma l’elevazione culturale di una larga fascia di popolazione è un processo lungo, che si forma goccia a goccia e ha bisogno di decenni, come una stalattite. Nel frattempo in casi come questo, in cui è lampante la personalità patologica, si potrebbe almeno ricoverare i soggetti in un ospedale psichiatrico a tempo indeterminato: tutto il tempo che serve finché un esperto vero – e non un giudice privo di tale formazione e che si occupa di tutto, dai furti agli incidenti stradali – decida che il soggetto è davvero recuperato.