Giudiziaria
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02/06/2021 17:45

Brusca non è cambiato, e ha ancora tanto da dire

La riflessione di Raffaella Fanelli, la giornalista a cui il boss rispose dal carcere che era una persona nuova

di Redazione

La riflessione di Raffaella Fanelli, la giornalista a cui il boss rispose dal carcere che era una persona nuova
La riflessione di Raffaella Fanelli, la giornalista a cui il boss rispose dal carcere che era una persona nuova

 Raffaella Fanelli ha intervistato Salvatore Riina, Angelo Provenzano, Vincenzo Vinciguerra, Valerio Fioravanti. A lei Giovanni Brusca, nel febbraio 2016, rispose dal carcere tramite i legali replicando, a una sua inchiesta pubblicata su Oggi, che era diventato “un’altra persona”. Fra i suoi libri, “Al di là di ogni ragionevole dubbio. Il racconto di via Poma” (Aliberti, 2011); “Intervista a Cosa Nostra” (Anordest, 2013); “La verità del Freddo” (Chiarelettere, 2018), libro-intervista all’ultimo capo in vita della Banda della Magliana, Maurizio Abbatino. Lo scorso ottobre è uscito per Ponte alle Grazie “La strage continua”, un viaggio nella vita e le indagini di Mino Pecorelli. 

Ragusa – Jeans e camicia bianca, venti chili in meno e capelli rasati. Così Giovanni Brusca ha lasciato il carcere di Rebibbia dov’era detenuto: “E’ una persona cambiata – mi dice l’avvocato Luigi Li Gotti, legale storico dell’ex boss di San Giuseppe Jato – e ha scontato il suo debito con la giustizia”. L’avvocato Li Gotti mi ricorda che è grazie alle sue dichiarazioni (e strazianti confessioni) che è stata fatta piena luce sulla strage di Capaci. E su questo non sono per niente d’accordo. Sarà cambiato nell’aspetto, tanto che neanche Santino Di Matteo lo riconoscerebbe, ma è difficile credere che ‘u scannacristiani, ‘u verru (il porco), perché così lo chiamavano i suoi amici mafiosi, abbia detto proprio tutto, così come è impossibile pensare che si sia trasformato in un uomo buono e compassionevole. Proprio lui che ha commesso qualcosa come 150 omicidi, strage di Capaci inclusa.

Forse dovrebbe dire chi c’era con lui su quella collinetta sull’autostrada quando azionò il telecomando che provocò l’esplosione e la morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre uomini di scorta. Dovrebbe dire di chi erano i guanti in lattice ritrovati nel cratere di Capaci. Di chi erano quei mozziconi di sigaretta, visto che ‘u verru non ha mai fumato. Da lei, caro signor Brusca, folgorato come San Paolo sulla via di Damasco ci interesserebbe sapere del suo arresto, successivo al discorso di Mestre di Totò Riina e precedente alle dichiarazioni che hanno condannato all’ergastolo Giovanni, il primo figlio maschio del Capo dei Capi. Ci piacerebbe sapere del viaggio in aereo con Luciano Violante.

Ci piacerebbe sapere perché è solo nel 2011 che lei decide di parlare di Marcello Dell’Utri, dopo ben 15 anni dall’inizio della sua collaborazione. Una reminiscenza, tardiva e recidiva, che nel 2013 la porta a puntare il dito contro l’ex presidente del Senato Nicola Mancino: “E’ lui il destinatario finale del papello”, questo dichiarò all’udienza preliminare dell’inchiesta per la trattativa Stato-mafia. Scusi, caro signor Brusca, perché ci ha messo così tanto tempo per ricordare due nomi? Possiamo pensare che lei sappia ben altro? Che ci siano altri nomi in angoli nascosti della sua memoria, magari di politici ancora oggi al potere? Non ce ne voglia l’avvocato Li Gotti se dubitiamo della fedele collaborazione del suo assistito.

Giovanni Brusca mi fa sapere, attraverso l’avvocato, di aver chiesto perdono ai familiari delle sue vittime e di averlo fatto durante i vari procedimenti penali in cui è stato escusso come teste. Di aver chiesto scusa a tutti, “pubblicamente e indistintamente”, e di aver incontrato i familiari delle sue vittime in una chiesa. Eppure nessuno dei familiari delle vittime di Capaci dice di aver ricevuto una richiesta di perdono e men che meno di averla vista fuori dalle aule di tribunale. Con certezza possiamo dire che, negli anni, oltre a pregare e a leggere libri di storia contemporanea, ha protetto le sue tasche, almeno fino al 2010, quando un’inchiesta della Procura di Palermo ha rivelato che lo scannacristiani approfittava dei giorni di permesso trascorsi fuori dal carcere per curare i suoi affari e gestire beni attraverso una rete di prestanome. 

Poi il processo scaturito da questa vicenda si è concluso con l’assoluzione di Brusca dall’accusa, derubricata da estorsione in tentativo di violenza privata. Che Davide Brusca, il figlio dell’ex boss, lavori, con altro nome, per un’associazione schierata in prima linea contro la mafia non fa del padre un Santo, Brusca resta un assassino. Uno stragista. Resta ‘uverru. Resta il boia di Totò Riina. E quando tornerà in Sicilia (perché questo sogna di fare, di tornare a casa) se lo ricordi che il patto con lo Stato non l’ha mantenuto. Che doveva dire tutto, e subito. Quando guarderà la sua terra “adorata e bella” dovrà abbassare gli occhi. Perché quella terra è stato lui, anche lui, a insanguinarla.