Ragusa - La statua di San Giovanni Battista compie quest'anno mezzo millennio. Scolpita nel 1513 da Angelo Rocchetti, la statua del Battista realizzata in roccia bituminosa, ma in questo caso è giusto adottare il vernacolare "petrapici", è vecchia di cinquecento anni.
L'immagine del Precursore, patrono di Ragusa, scolpita mezzo millennio fa nella tipica pietra ragusana, è quella che ancora oggi alcuni tra i ragusani più anziani chiamano "San Ciuvannuzzu u niuru".
E' la statua devozionale proveniente dalla chiesa di Ibla crollata l'11 gennaio 1693, mentre l'altra statua, la moderna, portata in processione, è opera realizzata in legno dallo scultore ragusano Carmelo Licitra nel 1858. Quest'ultima è stata recentemente restaurata e riportata all'antico splendore.
Nulla, si potrebbe replicare, davanti ai millenari monumenti, anche geograficamente vicini, ma è invece tanto se si pensa che quel tragico 11 gennaio è stato per questa parte di Sicilia un punto di cesura.
Tutto quanto è resistito alla scossa è da considerarsi miracolato, a maggior ragione, quindi, se parliamo della statua simbolo della fede ragusana. Anche quest'anno in processione saranno migliaia i ragusani. Tutti devoti di San Giovanni Battista, anzi "ri Sanciuvannuzzu u beddu".
Il 29 agosto è data scolpita nella genetica dei ragusani del Patro, la città nuova per intederci quella devota al Battista, un tempio "avversario" del San Giorgio di Ibla. Da qualche decennio, fortunatamente, i due santi, e i loro fedeli, vivono d'amore d'accordo.
Una data che segna le loro vite da generazioni. Da oltre un paio di secoli, quando consuetudine e norme clericali consentirono di fissare i festeggiamenti alla fine del mese che nell'annata agraria è il meno impegnativo. Con tutto il rispetto per il figlio di Zaccaria ed Elisabetta, cugino di Maria madre di Dio, il 24 giugno è ancora oggi molto più difficile organizzarsi, con la mietitura ed i lavori granari in genere al massimo dell'attività. E se anche oggi sono efficienti mietitrebbia meccaniche a fare in un'ora il lavoro che cinquanta anni fa impegnava per due giorni una dozzina di mietitori armati solo di falce e canne per ripararsi le dita, giugno è comunque mese dedicato al lavoro.
Ma ad agosto si è tutti per il Patrono.
Vestiti a festa e curiosi di vedere cosa propongono le bancarelle, i ragusani in quei giorni vivono emozioni e pensieri molto simili a quelli dei padri, dei nonni e dei "ratananni".
Le bancarelle non sono quelle tanto attese per poter comprare utensili e pentole di rame, il vestito della festa è quello di tutti giorni, e il trillo dei cellulari copre la "vanniata" del commerciante (che del resto, cosa potrebbe vanniare nel suo mandarino o nel suo arabo magrebino), e meno che mai la passeggiata lungo il pendio della Natalelli servirà "a circarisi a zita". Per questo bastano e avanzano social networks e locali pubblici.
Eppure, in quei giorni la città è in fermento, passeggero e limitato, ché la norma è il grigio e l'abitudinaria frequentazione dei pochi amici dello stesso giro da sempre. In quei giorni di fine agosto i ragusani sono accanto a quello che ancora oggi alcuni chiamano Giobatta. Il santo mostra un volto scavato che non è difficile ritrovare facendo un veloce giro nei pochi circoli cittadini rimasti aperti e presenziati da anziani ragusani (qui si intendono quelli popolari, di categoria, insomma, dei picconieri e dei carrettieri, non i club più o meno esclusivi, più o meno ricercati, più o meno dediti ai giochi).
Una città tutta che attende la processione, e che guarda al simulacro con la devozione dovuta al Patrono, chiamato in causa durante i forti temporali ma anche quando le cose non vanno come dovrebbero. Il Patrono è uno di noi.
La Sicilia