Scicli - Parlano usando il pluralia maiestatis i protagonisti degli innocui festini di Playa Grande.
Non sono figli di papà, come si potrebbe credere.
Sono figli di “mammi”, padri troppo premurosi, abituati a concedere loro tutto: il capello rasta, il rap al retrogusto insipido del caciocavallo quando non è ancora stagionato, e l’essere “contro”, contro il sistema, contro i giornali, contro la borghesia, di cui loro sono ahimè figli e anche nipoti.
Abituati a premi su segnalazione telefonica, alla “ragusani nel cacio”, ben lungi dallo sporcarsi le mani con una lettera di rettifica, in cui dicono la loro e rispondono per le rime a Sciclinews, pretendono piuttosto le scuse, parlando in prima persona singolare e usando il “Noi” plurale.
Della spiaggia -demanio pubblico- pensano di essere padroni, in quanto Playa Grande, contrada di Scicli, è “villaggio residenziale”, e i residenti fanno ciò che vogliono, senza interloquire con giornali o chicchessia.
Come diceva Piaget, devono aver avuto una buona dose di infanzia irrisolta questi ragazzi, cresciuti come sono nella bambagia, tra coccole paterne confortanti, rassicuranti del loro destino, di impiegati di banca. La banca dei massari, ovviamente.
Abbiamo chiesto alla prima firma di ScicliNews, Un Uomo Libero, di scrivere un pezzo sulla querelle del Rave Party a Playa Grande.
Il Moderatore
Playa Grande è un villaggio nato sotto una pessima stella. Un cattivo esempio, ripetutamente imitato in tutta la fascia costiera ragusana. Una terribile dimostrazione della potenza devastatrice dell'uomo.
Agli inizi del Novecento "u Chianuranni" aveva il triste primato della febbre terzana. La zona, particolarmente insalubre per la presenza dell'estuario del fiume Irminio che proprio vicino alla foce si trasforma in un grosso pantano, era stata il grande spauracchio di quanti, "giornatari", per necessità e per fame dovevano lavorare in quei luoghi o semplicemente attraversarli.
Ogni volta che, con la macchina, portavo mio padre da quelle parti, mi ripeteva con terrore sempre questo ritornello e con esso le storie che lo avevano ispirato: "Cui passa rò Chianurànni 'ncapputtàtu sta nu juòrnu, nu misi o n'annu malàtu." Storie di malaria e di miseria, storie di sfruttamento e di abbandono.
La bonifica di quelle terre, intrapresa con la costruzione di una strada che collegava Donnalucata a Mazzarelli, oggi Marina di Ragusa, della quale è tuttora visibile il tracciato, e la provvidenziale disinfestazione delle nostre zone con il famigerato DDT, operata dagli americani nel dopoguerra, trasformarono quelle lande desolate in luoghi vivibili.
Già in epoca fascista la distribuzione per canalizzazione delle acque del fiume Irminio in varie zone dell'agro di Donnalucata aveva stimolato ripetute volte un'inquieta e intraprendente piccola imprenditoria locale (i pummaruràri) alla coltivazione del pomodoro primaticcio. Tentativi vaghi, fatti per ricercare una via d'uscita onorevole alla crisi profonda che attanagliava la tradizionale agricoltura iblea, che non ebbero il successo sperato. Nel dopoguerra questi tentativi si moltiplicarono e, invece, riuscirono grazie all'impiego dei teli di plastica a copertura delle primitive serre.
L'oro verde, il primaticcio appunto, la cui produzione raggiunse i picchi più alti tra gli anni sessanta e ottanta del secolo scorso, diede vita a un eldorado che provocò un vero e proprio terremoto nella società e nell'economia sciclitane. Famiglie tradizionalmente povere improvvisamente si ritrovavano tra le mani liquidità consistenti e capitali non indifferenti mentre famiglie tradizionalmente ricche dovevano frazionare i loro latifondi e far dipendere la loro sopravvivenza dal lavoro svolto da mezzadri e affittuari.
Il boom economico portò tanta di quella ricchezza che spesso fu amministrata in maniera disordinata. La conseguenza più immediata fu la nascita di nuove borgate lungo la costa dello sciclitano.
Il sogno di possedere una casa a Donnalucata, inseguito per tutta una vita, diventava ora facilmente raggiungibile anzi superato e plebeo.
La smania di elevarsi aveva rovinato non solo uno splendido litorale ma anche borghi marinari di rara e incontaminata bellezza. Donnalucata affogava nel cemento di costruzioni orribili che nulla possedevano della leggiadria architettonica delle sue antiche ville patrizie che si affacciavano direttamente sul mare o anche del gusto semplice delle umili casette dei pescatori. La casa moderna si ostentò come uno status symbol, qualche volta arredata follemente anche con impraticabili bagni in onice e pacchiane rubinetterie placcate in oro. Diventò il segno tangibile di una scalata sociale.
Playa Grande fu il vero grande risultato del boom. Un villaggio esclusivo per nuovi ricchi che volevano distinguersi da un'accozzaglia plebea che aveva colonizzato i centri storici della villeggiatura.
Un posto per pochi eletti, non suscettibile di pericolose contaminazioni perché delimitato dal fiume, dal mare, dalla strada, in un triangolo di verde macchia mediterranea. Il progetto subito raccolse entusiastici consensi da esponenti insospettabili di forze politiche, da uomini della finanza, da un comune, quello di Scicli, la cui necessaria e compiacente benedizione legittimò e inaugurò un clima allegro di disinvolta edilizia. Un crimine ambientale sproporzionato, uno stupro ecologico per il quale qualcuno di quell'amministrazione irresponsabile avrebbe dovuto pagare. I nuovi borghesi, non contenti di avere stravolto un angolo di paradiso, non contenti di aver distrutto un habitat unico e irriproducibile, pretesero poi anche che il mare rilasciasse la spiaggia, assente in quel tratto di costa, perché il loro capriccio potesse essere soddisfatto appieno. Fu costruito, difatti, un piccolo porticciolo rifugio per consentire a qualche illustre personaggio manovre più comode con il proprio "natante". Di conseguenza scomparve la spiaggia di Micenci, giusta e sacrosanta ribellione delle forze della natura
Playa Grande fu anche il risultato di uno scempio archeologico che tuttora è in essere senza che nessuno muova un dito per volerlo fermare. Mio padre mi raccontava di centinaia di tombe sparse per tutti i terreni circostanti quasi fino al mare. Dall'Acropoli dirimpettaia, proprietà recintata di privati, un'antica città, probabilmente greca e dal nome ancora sconosciuto, giace sepolta sotto una coltre spessa di terra e d'ignoranza, aspettando invano da decenni, come fu per la vicina Camarina, una mano pietosa che la riporti alla luce. Ma fino ad ora solo ruspe e trita pietre si sono avvicendate in quel luogo fra l'indifferenza generale e lo stupore ipocrita di un malaffare condiviso.
Playa grande è oggi una zona franca nella quale spesso le ordinanze del sindaco sono disattese. Consapevole di un abbandono, con una forte e massiccia presenza di ragusani, da sempre ha strizzato l'occhio a Marina di Ragusa per una smania mondana, congenita.
Un ambiente soft dove la peste d’infocate passioni, fa il paio con le corna del disinteresse e dell’abbandono, lì dove festini privati e pubblico scempio, e tutto ciò che accade e sopravviene, dev’essere tenuto abilmente lontano dal pettegolezzo curioso e devastante, o i figli dei “Mammi accapponati”, nomina pluralia tantum, s’inalberano e s’offendono.
Un jet set discreto che ha ospitato sin dal suo apparire divi dello spettacolo, artisti veri e fasulli, faccendieri dal portafoglio a mantice.
Il Koala Maxi è forse un brutto ricordo, anche se radunava nelle sue immense piste da ballo giovani di mezza Sicilia. Famose le annuali crociate contro simili stabilimenti del divertimento intraprese dai residenti, gelosissimi della loro privacy e del silenzio.
Da un pezzo, però, anche questo brutto gioiello borghese ha il sopraffiato. Stenta a riconoscersi per una crisi d'identità che recessioni economiche ed epocali rivolgimenti storici hanno innescato e ingigantito. Gli antichi riferimenti politici sono venuti meno e i nuovi prediligono mete meno contaminate o straniere. Il declino è palpabile sui muri delle case, sui prati e i giardini a volte trascurati, nel tentativo spesso riuscito da parte di generazioni di giovani, sempre più inquiete e inappagate, di trasformarla in una "normale" e comune frazione.
C'est la vie. Una volta era la febbre terzana a far fuggire la gente da quel posto, domani o forse oggi stesso sarà la perdita dell'antico prestigio che ne aveva fatto il fiore all'occhiello dell'élite più grossolana e più kitsch della Provincia di Ragusa, l'ultima meta del delirio borghese.
Un Uomo Libero
Nella foto, viale della Concordia, Playa Grande, Scicli