Cronaca Vittoria

I clan nisseni volevano uccidere vicequestore vittoriese Giovanni Giudice

E’ un brillante poliziotto, molto amato nella sua Vittoria

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Gela - Il clan del «terzo polo» del crimine, che aveva trovato spazio negli affari illeciti tra Stidda e Cosa Nostra, voleva uccidere il vicequestore di Caltanissetta, il capo della Squadra Mobile Giovanni Giudice. È quanto emerge dall'inchiesta che ha portato, stamane, all'esecuzione, di 28 ordinanze di custodia cautelare, 24 in carcere e 4 ai domiciliari. I provvedimenti, emessi dal gip Alessandra Bonaventura, su richiesta della Dda nissena, sono stati eseguiti con l'ausilio degli agenti del commissariato di Gela e delle questure di Asti e Pavia, nell'ambito di un'operazione denominata «Inferis». Il clan, fondato e diretto da Giuseppe Alferi, detenuto a Catanzaro, soprannominato «U Jerru», dal 2005 si sarebbe ritagliato uno spazio negli affari illeciti, contrapponendosi allo strapotere della Stidda e rendendosi autonomo da Cosa nostra, di cui però si dichiarava alleato.

 

 Alferi, dalla cella, comunicava con l'esterno dando ordini attraverso lo scambio dei pacchetti di fazzolettini che portavano nel parlatorio del carcere sia lui che le persone che lo andavano a trovare, soprattutto la moglie, Silvana Cialdino, e l'amante Maria Azzarelli. Tra gli ordini inviati ci sarebbe stato anche quello di uccidere il capo della squadra mobile di Caltanissetta, il vice questore aggiunto Giovanni Giudice: il particolare inquietante è stato riferito agli investigatori dal collaboratore di giustizia Emanuele Cascino, figlioccio del boss, che in segno di devozione si era fatto tatuare il volto del padrino sulle spalle.

 

Nell'autunno 2006 (tra la fine di settembre e i primi giorni di ottobre) Cascino e altri due affiliati al clan si sarebbero presentati alla porta dell'abitazione di Gela del funzionario di polizia, nel quartiere Caposoprano, celando un fucile con il quale avrebbero dovuto compiere il delitto. Per indurre il capo della Mobile a uscire, i tre citofonarono dicendo che intendevano lagnarsi per la durezza con cui sarebbero stati trattati dalla polizia durante i controlli di routine. L'atteggiamento fermo e deciso del funzionario, che si è affacciato al balcone rimproverandoli, li avrebbe disorientati, inducendoli a desistere. La stessa vittima designata però non avrebbe mai dato molta importanza all'episodio, nè al progetto di omicidio riferito da Cascino.

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 Braccio destro del boss era la sua amante, Maria Azzarelli, che nascondeva le armi, prestava denaro a usura, ricettava la refurtiva e occupava gli immobili, svolgendo, in assenza del capo, funzioni di raccordo e di controllo della banda. Una terza donna, Antonella Bignola, dipendente della sala Bingo di Gela, procacciava i clienti indebitati ai quali prestare denaro a usura. La ferocia della banda si manifestava con attentati dinamitardi e incendiari ad auto e negozi, spari contro saracinesche, vetrine e abitazioni. Un consistente contributo alle indagini è stato dato proprio da Cascino, figlioccio e fedelissimo del boss, che, sfuggito a tre agguati per contrasti esplosi all'interno della banda, è scappato da Gela, rifugiandosi al Nord, e ha deciso di collaborare con la giustizia. Cascino ha confessato di avere incendiato circa 80 auto in tre anni. I 28 arrestati sono tutti accusati di associazione mafiosa «finalizzata a commettere delitti di ogni genere e, principalmente estorsioni, furti, danneggiamenti col fuoco, usura, occupazione abusiva di immobili ed altri ancora». Per i magistrati «il gruppo mafioso fondato dal boss Giuseppe Alferi era una vera e propria agenzia del crimine, alla quale ci si poteva rivolgere per prestazioni illecite a pagamento, secondo un preciso tariffario».

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Secondo gli investigatori, il nuovo sodalizio mafioso era dedito «alle estorsioni, alla gestione di un vasto giro di usura, alla ricettazione, all'imposizione del prezzo della frutta (in particolare delle angurie) con illecita concorrenza e usando violenza e minacce. Inoltre, era entrata nella raccolta di materiali ferrosi ai danni di commercianti e artigiani; nell'occupazione abusiva (e successiva vendita) di case popolari dell'Iacp. L'organizzazione disponeva di uomini, armi e mezzi. Organizzata in «squadre», eseguiva furti di denaro e gioielli nelle abitazioni in città, mentre nelle campagne andava alla ricerca di ferro, rame, alluminio, e di materiale di valore. Rubavano di tutto: auto, furgoni, attrezzature e automezzi industriali per poi restituirli con il cosiddetto metodo del «cavallo di ritorno», cioè dietro pagamento di un riscatto in denaro.


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