Cultura Chiaramonte Gulfi

Di Vita, l'archeologo col Mal d'Africa che scoprì Kamarina

Mancato notaio, finissimo ricercatore



Chiaramonte Gulfi - E’ stato uno dei più illustri cittadini che Chiaramonte abbia mai avuto: allievo di Santo Mazzarino e di Guido Libertini, Cavaliere di Gran Croce (la massima onorificenza concessa dallo Stato Italiano), socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, medaglia d’oro al merito per i beni culturali…e abbiamo citato solo le onorificenze più note. Nella sua vita ha scritto più di 400 articoli specialistici e ha pubblicato almeno 10 monografie: stiamo parlando dell’archeologo Antonino Di Vita, scomparso a 84 anni nel 2011 le cui opere, però, sono destinate a durare per l’eternità, almeno tanto quanto i monumenti che, grazie alla sua attività di studio, è riuscito a portare alla luce. E’ al suo lavoro, infatti, che si deve la scoperta del villaggio di Scornavacche e l’avvio dei lavori di Kamarina. Ma, ovviamente, c’è molto altro. Grazie alla disponibilità della moglie, Maria Antonietta Rizzo, 62 anni, anche lei archeologa e docente di etruscologia presso l’Università di Macerata, abbiamo cercato di far rivivere, attraverso il racconto della persona che ha condiviso con lui una vita, sia l’uomo che lo studioso. Su Antonino Di Vita è stato scritto tanto: oltre alle sue opere, infatti, esiste anche un libro intitolato “I racconti del professore” scritto da Liliana Madeo (edizioni Iacobelli) ed edito nel 2014, una vera e propria trascrizione di alcuni racconti di vita professionale registrati dall’archeologo e riscritti dalla giornalista per essere fruibili al pubblico. Ma quali sono state le principali tappe professionali dell’archeologo? Com’èra umanamente parlando? Che cosa gli è rimasto della Sicilia e in particolare della sua zona d’origine, il ragusano? Maria Antonietta Rizzo ci parla di “Nino”, così come lei continua a chiamarlo ancora affettuosamente...

Quando vi siete incontrati per la prima volta lei e suo marito?

“Dunque, era il 1980 e siamo rimasti insieme fino al 2011, anno in cui è morto. Lui era il Direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene, incarico che ha avuto dal 1977 al 2000. Abbiamo lavorato insieme in Grecia, soprattutto a Creta, e in Libia, Paesi in cui ha portato avanti per decenni scavi, restauri e ricerche”.

Il suo percorso, però, è iniziato a Catania…

“E’ stato allievo di Santo Mazzarino e di Guido Libertini. Contrariamente alle volontà della sua famiglia, che lo voleva avvocato, notaio o medico, secondo le tradizioni fino ad allora rispettate, volle fare l’archeologo. Il nonno Matteo aveva numerose proprietà a Chiaramonte e con lui spesso passava le sue vacanze estive: era stato attratto, raccontava, dalle antichità che spesso venivano alla luce a seguito dei lavori agricoli . Dopo un iniziale contrasto con la famiglia si iscrisse finalmente all’Università di Catania, alla Facoltà di Lettere per poi proseguire gli studi di Archeologia.

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Da allora in poi ha cominciato il suo lungo itinerario, che lo ha portato a Roma e ad Atene per frequentare la Scuola di Specializzazione, poi a Palermo (come assistente presso la Cattedra di Archeologia), poi a Siracusa e Ragusa (come ispettore di Soprintendenza), e di lì in Libia (come Consigliere del governo libico per le antichità tra il 1962 e il 1965, e dove ha poi continuato le sue ricerche per più di 45 anni), poi a Macerata (come professore ordinario di Archeologia e dove è stato anche Rettore), ed infine in Grecia (dove è stato per 24 anni Direttore della Scuola Archeologica Italiana).

Antonino Di Vita, nella zona del ragusano, è ricordato principalmente per gli scavi di Scornavacche e Kamarina. Com’è nata quell’esperienza?

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“Dal 1955 al 1958 è stato prima ispettore e poi direttore nella Soprintendenza alle Antichità di Siracusa. Gli scavi di Scornavacche e la necropoli di Rito a Ragusa sono i suoi lavori principali nella zona, dove ha anche dato l’avvio agli scavi di Kamarina, rimasta abbandonata dai tempi di Paolo Orsi. Proprio nei giorni scorsi abbiamo dato il via alla pubblicazione dei suoi vecchi scavi nel Ragusano relativi alle necropoli greche di Rito a Ragusa grazie all’impegno di Giorgio Chessari, vostro concittadino, e presidente del Centro Studi Feliciano Rossitto di Ragusa.."

Quali ricordi conservava di quel periodo a Ragusa?

“Ispettore archeologo della provincia di Ragusa fino al 1960, ricordava sempre quel periodo come un’esperienza bellissima. Allora questa parte della Sicilia orientale da un punto di vista archeologico era praticamente abbandonata. I suoi scavi, di grandissima rilevanza, attirarono l’attenzione di studiosi italiani e stranieri: Scornavacche, ad esempio, è l’unico esempio in zona di villaggio dedito interamente alla produzione di ceramica, di cui furono allora scavati più di 200 ambienti. Gli scavi nella necropoli di Rito a Ragusa hanno messo a fuoco i rapporti fra i greci e gli indigeni. I materiali di questi scavi sono esposti nel museo regionale di Ragusa, da lui istituito già nel 1961. Si trattò, allora, di un museo veramente all’avanguardia dove furono ricostruiti negli ambienti del museo alcuni vani del villaggio antico, ricollocandovi anche gli oggetti così come si erano presentati agli occhi dello scopritore dopo più di 2200 anni”.

Dopo l’esperienza ragusana, qual è stata la sua successiva tappa professionale?

“E’ stato in Libia come consigliere del Dipartimento delle antichità della Tripolitania con residenza a Tripoli dal 1962 al 1965. L’esperienza in Libia ha segnato un momento fondamentale nella sua vita, per gli straordinari scavi e restauri monumentali da lui allora cominciati e continuati fino ad oggi, ancora dopo la sua scomparsa,, grazie ai rapporti personali di stima ed affetto instaurati con i colleghi libici.

Una volta rientrato in Italia nel 1965, diventato cattedratico di archeologia, poi Preside della Facoltà di Lettere, e poi Rettore dell’Università di Macerata, malgrado i suoi impegni accademici non ha mai rinunciato a dirigere anche sul campo le sue ricerche".

La carriera accademica non gli ha impedito di continuare a svolgere la professione di archeologo…

“No, neanche negli anni seguenti, quando fu nominato nel 1977 Direttore della Scuola Archeologica Italiana ad Atene dove è rimasto fino al 2000, al momento del pensionamento".

Quali, secondo lei, sono stati gli scavi che potremmo definire fondamentali nella sua lunghissima carriera?

“Ha fatto scavi in varie aree del Mediterraneo ma ritengo che in Libia abbia potuto svolgere le ricerche più importanti: ne sono esempio il restauro del grandioso l’arco quadrifronte dei Severi, i grandi scavi dell’anfiteatro e del tempio di Serapide a Leptis Magna, mentre a Sabratha, altra importante città antica della Libia, ha scavato e poi rialzato il mausoleo punico-ellenistico B, alto circa 24 metri, e poi riportato alla luce l’area sacro-funeraria di Sidret el-Balik, con il più grande ciclo pittorico dell’Africa romana. Sono stati lavori che hanno richiesto non comune doti di ricercatore e di organizzatore sul campo, e mi auguro che vengano essi vengano salvaguardati in un così difficile momento politico che la Libia sta attraversando. I lavori di restauro sono continuati, malgrado le difficoltà, fino al 2014, anno in cui le ben note vicende hanno di fatto impedito la presenza di archeologi stranieri sul suolo libico. Noi, che continuiamo l’opera iniziata più di 50 anni fa da Antonino Di Vita, speriamo di poter tornare al più presto laggiù, dove i nostri colleghi libici del Dipartimento stanno facendo di tutto per difendere i loro monumenti dai rischi e dalle distruzioni della guerra”.

Abbiamo parlato molto della vita professionale di Antonino Di Vita. Ma che tipo di persona era?

“Era una persona di una grandissima generosità e di una grande disponibilità verso chiunque gli si avvicinasse, dal più umile degli operai al più importante dei ministri, dagli studenti ai colleghi. Amava trasmettere il suo sapere ed il suo entusiasmo, nella convinzione che le sue scoperte dovessero divenire patrimonio di conoscenza per tutti e che solo la raggiunta consapevolezza dell’importanza dell’Antico da parte degli abitanti di quei luoghi potesse salvare le antichità da distruzioni e oblio”.

Qual è stato, secondo lei, il luogo al quale è rimasto più legato?

“Un legame particolare veniva da lui istituito con ciascuno dei luoghi dove si è trovato ad operare; alla Sicilia della sua infanzia e degli anni iniziali della sua carriera di archeologo era molto legato, tanto da conservare nel corso dei decenni che lo avevano visto lontano dalla sua terra le sue proprietà dei suoi avi a Chiaramonte. Ed è con piacere e riconoscenza che ho assistito all’intitolazione di una strada a suo nome qui a Chiaramonte, il suo amato paese, dove tornava ogni volta che gli impegni, sempre più pressanti, glielo concedevano; ma ricordo con piacere, ed anche Nino ne era molto fiero, che da vivo nel 1998, Gortina di Creta, gli aveva intitolato una strada, e il paese di suo padre, Licodia Eubea, gli aveva intitolato nel 2002 il locale museo archeologico.

Ma sono anche sicura che nel suo cuore era rimasta l’Africa, con i suoi spazi immensi, con i suoi deserti, con i suoi colori, così vicini in molti casi a quelli della sua Sicilia, con le sue straordinarie città antiche, con i suoi silenzi".


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