Cultura Santa Croce Camerina

Una mostra sul Mito al Brancati

Una koinè tematica



Scicli - Scendono dall’Olimpo gli dei, calano copiosi a Scicli, a far festa con satirelli e sirene, a cantare la fiaba senza tempo della tragedia e dell’amore, del fato, che falcia inesorabile il sogno dell’uomo, ma anche dei suoi mai finiti desideri. Perché, a dispetto delle ingiurie violente della cronaca, oggi quanto mai dura pure contro i cieli intoccabili del bambino, è ancora mito. E a rivendicare la secolare funzione fondamentale, che esso ha rivestito nella cultura, nella società e finanche nella politica, si levano le voci significative di ventitré artisti di casa iblea.
L’occasione è la Mostra Natalizia del Brancati di Scicli, immancabile appuntamento annuale in provincia, che per questo 2014 ha proposto il tema accattivante del mito. Sfogliando le opere dei nostri, ci colpisce la varietà estrema con la quale è stato accolto il motivo, restituito poi sulla tela in senso proprio, ovvero ripercorrendo figure e racconti universalmente acquisiti, Perseo, la Gorgone e Atena, Aracne trasmutata in ragno da Atena, Eros nel giardino delle Esperidi, Proserpina; ma anche nel suggestivo avvicinamento al mito, nella sua percezione metaforica o attualizzata, nel suo impiego quale inesauribile serbatoio iconico.
Gli artisti si misuravano infatti non solo col mare magnum della mitologia, d’una straordinaria moltitudine di racconti, tutti arrecanti una propria sacralità, ma pure con la loro quanto mai variegata lettura, condotta nei secoli da Platone e Aristotele, da Kant ed Hegel, fino alle interpretazioni novecentesche di Freud e Jung. I pittori iblei si confrontavano, non ultimo, con le personalità titaniche di artisti antichi, moderni e contemporanei, stelle fisse della storia dell’arte, sedotte da quella “resurrezione in forma di narrazione di una realtà primigenia”, di cui parla Malinowski, che definisce ancora il mito come “un ingrediente vitale della civiltà umana, non favola inutile, ma forza attiva costruita nel tempo”. Limitandoci all’ultimo Ottocento e a qualche esempio novecentesco, meditiamo sulla parte giocata dalla mitologia in Sartorio, Sironi, De Chirico, Savinio, Paladino, tra i numerosi, che hanno attinto a questa fonte anche per rintracciarvi una chiave d’accesso alle regioni oscure dell’inconscio, per dare voce a imperativi morali e archetipi, a pulsioni e paure, a valori ancestrali.
Su una koinè tematica, precisa e libera al contempo, si sono espressi gli iblei, ciascuno con la propria originalità di cifra, il mistero sublime della poesia di Guccione, la forza sintetica del segno di La Cognata, la fantasia cromatica di Salvo Barone, il fulgido paesaggio insulare di Polizzi nel mito autoctono di Kamarina, la mitica icona di femminilità nella Marylin di Sarnari, l’atemporalità metaforica dell’Ulisse di Rinzivillo, la matita sapiente di Pinelli, la levità libera dell’Icaro di Rampanti, le maschere enigmatiche nel dialogo di Gennaro con Pirandello, la scelta molteplice del d’après, con la frequente visitazione di Caravaggio in Candiano, Puglisi, Chessari, Lissandrello. Questi artisti, assieme agli ulteriori artefici della mostra, Amenta, I. Barone, Cartia, Colombo, Di Quattro, Ferrando, Guastella, Messina, Sacco, Zuccaro, oppongono bellezza alla più cerebrale medializzazione di tanta arte coeva, ove il mito è figlio della comunicazione – pensiamo al Papa collassato di Cattelan o alla performer balcanica Abramović – indicandoci a una regione mitica, immaginata e sentita, che esiste felice al di qua di ogni dolore, di ogni ferita della civiltà

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