Chiaramonte Gulfi - Sorge in via Martiri Ungheresi da più di cento anni ed è uno dei ristoranti chiaramontani più noti nel mondo. Dal 1996 è entrato a far parte dell’associazione Locali Storici d’Italia, oltre ad avere ottenuto, nel corso della sua lunghissima storia, una miriade di altri riconoscimenti, l’ultimo dei quali è arrivato proprio nel 2015: l’Accademia Italiana della cucina, fondata da Orio Vergani, ha insignito questo ristorante con il premio “Giovanni Nuvoletti” per “La conservazione, conoscenza e valorizzazione della buona tavola tradizionale del proprio territorio”. Stiamo parlando del ristorante Majore, situato nel cuore di Chiaramonte Gulfi, a pochi passi dalla centralissima piazza Duomo, in una delle vie più suggestive del piccolo centro montano. Una storia lunga più di un secolo, iniziata nel 1896 e che continua ancora oggi forte più che mai. Ma come è iniziata questa particolarissima avventura? Che cos’era prima il ristorante Majore? Com’è riuscito a conservare la propria identità nonostante il trascorrere del tempo? Chi ha coniato la frase “qui si magnifica il porco”, diventata marchio di fabbrica del locale? Qual è, insomma, il suo segreto? Per scoprirlo, abbiamo incontrato l’attuale proprietario e gestore del locale: Salvatore Laterra Majore che, insieme alla sorella Maria Laterra, ha ereditato il ristorante fondato dal bisnonno Raffaele Laterra Majore nel lontanissimo 1896. In linea temporale, la loro è la quarta generazione a gestire il ristorante.
La domanda delle domande: com’è nato il ristorante Majore?
“Il locale è nato nel 1896 grazie al mio bisnonno, Raffaele Laterra Majore ed era una rivendita di vino. Il cognome Majore è stato aggiunto dopo per distinguerlo da un’altra bottega che c’era a Chiaramonte in quel periodo e che aveva lo stesso cognome, Laterra. Per evitare confusioni e omonimie, è stato affiancato anche il nome della moglie, Majore”.
All’inizio, dunque, questo ristorante era una semplice rivendita di vino?
“Esatto. Potremmo definirlo una bottega-rivendita, come si usava all’epoca. Al bicchiere di vino si accompagnavano spesso semplicissime pietanze come l’uovo sodo oppure la cosiddetta “fidduzza”, cioè uno straccetto di carne, lontano anni luce dalla nostra bistecca”.
Come si è arrivati alla preparazione del maiale?
“Il maiale era un animale particolarmente diffuso a Chiaramonte. Anticamente, infatti, ogni famiglia allevava uno o due maiali in casa che, dopo la macellazione veniva utilizzato in vari modi: fresco, salato o essiccato. Chiaramonte si è sempre prestata bene all’allevamento del maiale proprio grazie al clima rigido del periodo invernale. Le famiglie non tenevano tutto il maiale per loro, piuttosto veniva rivenduto. E’ nata, dunque, da questa abitudine prettamente familiare la diffusione e la lavorazione del maiale, affiancata sempre alla rivendita del vino”.
In che epoca storica il locale comincia a trasformarsi nel ristorante che oggi conosciamo?
“Già negli anni 1920-1930 per la mia famiglia comincia a diventare un vero lavoro. Mio zio, ad esempio, raccontava che si macellavano, in quel periodo, anche due maiali a settimana. Per questo motivo, con il passare del tempo, si comincia a prediligere il lato gastronomico a discapito del consumo di vino. Quella che è la nostra saletta storica comincia a diventare un vero e proprio punto di riferimento per tantissima gente non solo del posto, ma anche da fuori. Negli anni ’40, ad esempio, diventa meta degli ufficiali della seconda guerra mondiale”.
Insomma, possiamo dire che ai vostri tavoli, è passata la storia d’Italia in un certo senso. E negli anni ’50?
“Negli anni ’50 eravamo punto di riferimento per gli ingegneri della GULF che operavano nel ragusano quando hanno iniziato a scavare i pozzi petroliferi. Negli anni ’60, invece, siamo stati punto d’appoggio per gli operai e gli ingegneri di quello che poi è diventato lo stabilimento della raffineria di Gela. Gli anni ’60, per noi, sono stati il punto di demarcazione”.
In che senso?
“Questo mio zio di cui parlavo, chiamato “Vannuzzu” Laterra Majore, era particolarmente portato per le relazioni sociali. Oggi, potremmo definirlo un P.R. Era lui quello che gestiva i contatti, partiva per le fiere, presentava la gelatina alle settimane gastronomiche a Milano e via dicendo. E’ stato grazie a lui che abbiamo allacciato i rapporti con i più grandi gastronomi d’Italia. Mio padre, invece, Giuseppe Laterra Majore, era particolarmente portato per la produzione e il laboratorio. E’ stato questo connubio a permetterci di aprire l’altra sala nel 1966 e questo ci ha permesso di superare i confini provinciali”.
E da allora non vi siete più fermati. Tantissimi sono stati i riconoscimenti e i premi che avete vinto e continuate a vincere…
“L’ultimo è stato il premio che ci ha insignito L’Accademia italiana della cucina, il “Giovanni Nuvoletti”. Nel 1996 siamo entrati a far parte dell’associazione Locali Storici d’Italia, sotto il patrocinio del ministero dei beni culturali. Nel 1987, il New York Times ci ha dedicato tre quarti di pagina. Molta gente proveniente da oltreoceano, ricordo, fino a qualche anno fa arrivava ancora con quell’articolo di giornale. Nel 2011 abbiamo vinto a Milano il premio “Golosario”, insignito da Paolo Massobrio come uno dei tre migliori locali italiani per la categoria ristoranti della tradizione. Siamo citati, inoltre, sulle maggiori guide: Michelin, Gambero Rosso, Touring Club”.
Essendo il vostro un ristorante della tradizione, il menù, in effetti, è particolare. Alcuni piatti sono il vostro cavallo di battaglia e sono lì da sempre. Com’è possibile che in un’era in cui si parla sempre di rinnovamento e cambiamento il vostro ristorante non senta il bisogno di cambiare menù?
“I piatti per cui noi siamo conosciuti si preparano sempre e non possono mancare: il risotto alla Majore, la gelatina, i salumi e la costata ripiena. E’ vero, i gusti sono cambiati e quindi anche noi abbiamo dovuto attualizzare i nostri piatti e inserire altre proposte. Ma lo zoccolo duro del menù rimane sempre quello. E in effetti, nonostante noi non cambiamo mai, siamo sempre sul mercato. Questa, a mio avviso, è una cosa impressionante. Ricordo, ad esempio, un cliente che era venuto a mangiare 85 anni prima nel nostro ristorante. Ecco, lui ricordava perfettamente il posto e di aver mangiato quegli stessi piatti e ha voluto mangiare di nuovo le stesse cose. I clienti che dicono di essere stati qui decenni prima hanno ricordi indelebili di quei piatti. E’ davvero un fenomeno di marketing straordinario che meriterebbe di essere studiato. Noi non cambiamo mai, eppure siamo sempre qui. Anzi, se capita di non avere quei piatti, il cliente resta deluso”.
E il locale? E’ vero che si trova sempre in via Martiri Ungheresi da più di cento anni, ma qualcosa è cambiato…
“I locali sono sempre stati rinnovati e tenuti al passo coi tempi. Del ristorante originario è rimasta la cucina e la saletta. Il laboratorio è stato realizzato nel 1957-1958. Nel 1966 abbiamo inaugurato la sala grande, che ha circa 80-90 coperti. Naturalmente è stata rinnovata. Nel 2005, invece, abbiamo aperto la cantina che attualmente ha circa 100 distillati e 650 etichette diverse di vino provenienti da tutta Italia. Nel 2012 abbiamo rinnovato completamente la cucina”.
E la saletta storica? Tutti noi la ricordiamo soprattutto per gli affreschi e per quella famosa finestrella dipinta…
“La saletta è stata anch’essa rinnovata. E’ stata affrescata da Giovanni De Vita negli anni ’50 e poi rifatta sempre da De Vita nel 1969. E’ ovviamente la saletta più suggestiva”.
Qui si magnifica il porco. Questa frase De Vita l’ha anche affrescata. Ma di chi è?
“Come tutte le cose straordinarie, anche quella è nata per caso. E’ una frase del professor Pugliatti, già rettore dell’università di Messina. Negli anni ’60 si trovava nel ragusano e insegnava filosofia e veniva spesso a cenare qui. Una di quelle sere, dopo aver cenato nel nostro ristorante, disse quella fatidica frase. De Vita l’affrescò nel 1966 e da allora è rimasto il nostro motto. La cosa divertente è che spesso la gente che viene da noi non ricorda il nome del ristorante, ma piuttosto ricorda quella frase cercando il posto dove si magnifica il porco…”