"La medicina è mia moglie, la letteratura è l'amante" ripeteva il giovane Anton Cechov a Tolstoj e altri grandi del suo tempo, che gli spedivano lettere per esortarlo a mollare le novelle ironiche e umoristiche pubblicate sulle riviste (per pagarsi gli studi e mantenere genitori e fratelli) quando non era in qualche ospedale, e a dedicarsi finalmente col talento che aveva a un vero romanzo, a puntare più in alto. Ma soprattutto lo invitavano a sfilarsi stetoscopio e camice bianco per impugnare soltanto carta e penna. Non perché se la cavasse male in corsia, anzi. Ma era troppo bravo a scrivere, per questo insistevano tanto. Proprio due racconti successivi, non più umoristici - Il reparto n.6 e Il monaco nero - possono essere considerati tra i primi mai scritti dalla narrativa intorno alla follia. Nel primo - un crudo e violento reportage sul ricovero dei pazienti psichiatrici nella Russia zarista di fine 800, priva della nozione stessa di terapia - vista come autentica patologia mentale anziché possessione o disadattamento. Nel secondo - da far invidia al miglior Poe - addirittura come paradossale "cura" a una realtà ancor più malata. Due storie che aggrediscono con un pugno allo stomaco, lasciando senza fiato. L'occhio clinico del medico, trasferito sul foglio in un'assurda e spietata tragedia in cui i ruoli - il pazzo e il dottore, la verità e l'allucinazione - vengono ribaltati, e i concetti di normalità e devianza messi in discussione con un acume straordinario per l'epoca, anticipando acquisizioni sul pensiero divergente e il conformismo sociale proprie del secolo successivo.
Troppo densa e simbolica la prosa, troppo intense e coinvolgenti le trame per stare in poche pagine: urlavano la loro necessità di straripare in drammi teatrali. Una rappresentazione dei tipi e dei sentimenti umani così sofferta da dover essere eseguita dal vivo, davanti alla gente, da persone in carne e ossa. Talmente veri e a tutto tondo i protagonisti, che consegnarono bell'e pronto a Stanislavskij il suo famoso metodo di recitazione. Da qui Il gabbiano, Zio Vanja, Tre sorelle, Il giardino dei ciliegi: un'epica familiare pietra miliare della storia del teatro, con cui nessun autore, sceneggiatore o regista venuto dopo poté più fare a meno di confrontarsi. Trascurare l’attività medica fu vissuto però con un piccolo senso di colpa, come il tradimento di una missione: anche abbracciata l'amante, il narratore trovò sempre il tempo di tornare dalla consorte, abbandonando editori e compagnie di attori per correre a dare una mano in ambulatori e lazzaretti. Forse in uno di questi - a soli 25 anni - contrasse la tubercolosi che, seppur debilitandolo gravemente, riuscì non si sa come a trascinare per altri vent'anni prima che lo uccidesse. Un record. A riprova di quanto poco valga il Nobel: il primo per la letteratura fu assegnato nel 1901. Non ci sono scuse, hanno avuto 4 anni per darglielo, mentre era alle ultime forze e sui palcoscenici europei andava in scena la sua opera più emblematica: gli preferirono autori clamorosamente secondari, se non proprio mediocri, dimenticati oggi pure dai parenti stretti. Da Bob Dylan a Louise Glück: gli schizofrenici accademici passano dall’internazional-popolare all’ultra nicchia, e hanno perso molto oro dal loro setaccio in 120 anni. Il medico-scrittore russo è in buona compagnia: Ungaretti, Roth, Borges, Pound, Simenon, Tolstoj, Proust, Moravia, Eco, Joyce, Céline, Woolf e De Filippo, il drammaturgo italiano a lui più vicino: la dimostrazione di quanto risulti facile commuovere, e far riflettere, per chi sa far ridere. Nella lista dei dimenticati ci mettiamo anche Charles Bukowski. Come quest’ultimo, nonostante la fama e le celebrazioni, Cechov non ricevette un solo premio in tutta la sua vita. Tranne quello più importante, del pubblico.