Cultura Madrid

Il santo Cristo di Burgos: invenzione di una iconografia

Misteri

https://www.ragusanews.com/resizer/resize.php?url=https://www.ragusanews.com/immagini_articoli/04-05-2013/1396120108-il-santo-cristo-di-burgos-invenzione-di-una-iconografia.jpg&size=385x500c0 Il Cristo di Burgos


Madrid - Ritornando da Madrid, dopo le feste pasquali, mi è capitato di entrare nella splendida chiesa di San Giovanni Evangelista di Scicli che si trova al centro della scenografica ed elegante via Francesco Mormina Penna.

Il mio stupore fu grande nel vedere sostituito l’antico Crocifisso di cartapesta, al primo altare di sinistra, con il quadro restaurato raffigurante il venerato Crocifisso di Burgos, da sempre custodito in sacrestia.

Mi venne quasi dal ridere nel pensare che a Scicli si sia effettuato un percorso artistico e di fede esattamente opposto all’altro compiuto proprio a Burgos.

Tutto ciò ha come giustificazione di fondo, purtroppo, l’ignoranza della storia.

Il Cristo di Burgos è una delle immagini sacre più venerate di tutta la Spagna. Ma non solo della Spagna.

https://www.ragusanews.com/immagini_banner/1727261515-3-bruno.png

Una pia leggenda lo fa ritrovare agli inizi del XV secolo in mare, chiuso in una bara che galleggia, a un devoto mercante burgalese al ritorno da un viaggio di affari nelle Fiandre.

I racconti sul ritrovamento del Cristo si fanno col tempo sempre più misteriosi e affascinanti. Spesso ipotizzano un vascello fantasma alla deriva con dentro solo il Crocifisso.

https://www.ragusanews.com/immagini_banner/1727261515-3-bruno.png

Di sicuro la scultura non è spagnola ma fiamminga. Appartiene ai celebri Crocifissi snodabili che un tempo erano impiegati nella “discesa dalla croce” culmine della liturgia del Venerdì Santo.

Capelli posticci; occhi socchiusi e dipinti con tecniche riconoscibili tipiche della pittura fiamminga; dita, mani, braccia e piedi snodabili e articolati. Il Crocifisso è rivestito in tutto il corpo da una pelle di bue che ricopre i volumi di legno e ferro prima avvolti in fiocchi di lana, il tutto ripassato con una mano di pittura a olio che lo rende straordinariamente “vero”.

Fu proprio questo crudo realismo, tipico dei Crocifissi medievali, ad alimentare le leggende più strane nella fantasia ingenua del popolo.

I padri agostiniani lo custodirono gelosamente nel loro convento alla periferia di Burgos dal giorno del ritrovamento fino al 1835, anno della Desamortización (abolizione della Manomorta). Per effetto della confisca dei beni ecclesiastici, infatti, il Cristo fu trasferito in forma stabile nella cappella della Cattedrale di Burgos, dove ancora oggi è venerato.

In verità, già una prima volta il Cristo era stato portato in cattedrale. Al tempo in cui le truppe napoleoniche assediavano la città. Si era reso necessario questo trasferimento temendo una sacrilega profanazione della scultura.

Dopo la cacciata dei francesi, i padri agostiniani ricostruirono il convento, in parte distrutto dalle truppe di Napoleone, e subito reclamarono la scultura della quale erano molto devoti.

Per questo il Santo Cristo era conosciuto in passato come “Cristo de San AgustÍn” (cioè Cristo del Real Monastero di Sant’Agostino) più che come “Cristo de Burgos”.

Non mi fermo sulla devozione che è stata grande per oltre sei secoli.  Tanti santi si sono inginocchiati a venerarlo. Da Teresa de Jesús (Santa Teresa la Grande) a Santo Domingo de Silos, al santo vescovo di Cuenca, Giuliano; da San Juan de Mata a San Francesco, a San Pietro Nolasco, a San Bernardino da Siena. Forse alcuni di questi santi si sono prostrati solo nella fantasia e nel delirio dei loro figli spirituali che affollavano i conventi di Burgos. Di sicuro lo visitò Isabella di Castiglia, la quale al cospetto di tanto verismo, narrano le cronache, svenne.

L’enorme diffusione del culto è, comunque, da ricercare nella posizione geografica della città di Burgos, fermata obbligatoria per tutti i pellegrini del “Camino” diretti a Santiago di Compostela.

Premesso tutto questo, ritorno alle considerazioni che ho fatto in partenza.

Nella prima metà del Seicento a Burgos erano attive diverse botteghe di pittori locali tra le quali quella di Matteo Cerezo.

I padri agostiniani, ho scritto prima, erano gelosissimi del Cristo. Consentivano ai fedeli la contemplazione del simulacro solo in determinate occasioni e durante determinate funzioni.

La fama dei suoi miracoli, però, aveva oltrepassato i confini della Castiglia e un esercito di pellegrini da tutta la Spagna accorreva, ogni giorno sempre più numeroso, per invocarne le grazie.

In una cappella della Cattedrale si ritenne necessario, dunque, esporre una pittura che, in mancanza dell’originale (custodito dai padri agostiniani), ne ricordasse la devozione.

Fu questo il motivo per il quale il capitolo della cattedrale chiese a Matteo Cerezo, un modesto pittore di Burgos che già aveva ricevuto sue committenze, di dipingere una copia del Cristo allo scopo di esporla in una delle tante cappelle.

Matteo Cerezo inventò l’iconografia per la quale il Cristo diventò in seguito famoso nel mondo. Dipinse, infatti, un uomo in croce, ricoperto da una veste sacerdotale bianca, che è il colore della Resurrezione, crocifisso con tre chiodi, ai piedi del quale riprodusse un uovo di struzzo, uno dei cinque che un facoltoso mercante di Burgos aveva voluto donare al simulacro forse per una grazia ricevuta.

Le uova di struzzo, a quel tempo, erano ricercatissime, preziose, simboleggiavano la Resurrezione.

Il Cerezo piantò la croce su una piccola montagna appena distinguibile. Il Cristo è letteralmente immerso in un fondo oscuro, tipico del tenebrismo barocco dei pittori spagnoli del Seicento.

All’uovo di struzzo, Cerezo affiancò, in effetti, due sfere più piccole che molti hanno voluto identificare con altre due uova, in realtà hanno metallica consistenza volumetrica.

Da questa primitiva icona, debitamente “autorizzata” dai padri agostiniani per la cattedrale, ne furono tratte diverse copie e non solo da Matteo Cerezo padre ma anche e, di miglior fattura, da Matteo Cerezo figlio.

In ognuna di esse, la firma era dipinta fra l’uovo grande e le altre due sfere o uova più piccole, ai piedi del Cristo.

Le pitture si presentavano in una nera cornice di legno con un filo dorato a mecca. Il padre le firmava in basso in questo modo: “Matheo Çereço f.” mentre il figlio più verosimilmente firmava “Matheo Cerezo”.

Il fatto di chiamarsi con lo stesso nome, padre e figlio, ha provocato parecchi problemi di attribuzione. I critici d’arte a volte si sono espressi più per il figlio che per il padre.

Il figlio, infatti, raggiunse in pochi anni una notorietà che presto gli conquistò una buona fetta del mercato madrilegno delle committenze.

Discepolo di uno dei pittori più quotati del momento, Don Juan Carreño De Miranda, sarebbe senz’altro diventato uno dei grandi esponenti della pittura spagnola della seconda metà del Seicento, se la morte non avesse spezzato la sua giovane vita (1637-1666).

L’iconografia del Santo Cristo di Burgos, inventata da Cerezo el viejo, fu ripetuta, poi, fino alla nausea da botteghe d’artisti di dubbio valore. I dipinti (sono centinaia e disseminati per tutti i territori dominati da spagnoli) erano richiesti da privati o spesso da monasteri come oggi si potrebbero richiedere litografie e poster di quadri famosi ai principali musei del mondo. Per chi, curioso, vuole saperne di più, rimando all’interessante lavoro di Antonio Iturbe SaÍz Osa, del Real Monasterio del Escorial, nel quale, tra gli esemplari presenti in America Latina, Europa e Filippine, l’Autore cita anche il nostro di Scicli.

Il valore di queste pitture “in serie” è, ovviamente, quasi nullo, considerando che proprio una copia, firmata addirittura da uno dei due Cerezo, è stata battuta in un’asta di Barcellona partendo da un prezzo iniziale di appena 9000 euro. A darne notizia è il Diario de Burgos del 12 marzo del 2011.

Che un quadro, raffigurante il Santo Cristo di Burgos,  si trovi anche a Scicli, non è, dunque, né un fatto miracoloso né tanto meno eclatante. Scicli come tutta la contea di Modica rimase sotto l’influenza spagnola fino al 1816.

Se, come sostiene il Nifosì in un suo articolo, la data (1696), contenuta nella copia di Scicli, e una firma appena leggibile (Don Juan de…) sono state davvero rinvenute sulla tela (immagino durante la fase del restauro), prima ancora che lo evidenziasse un attento esame del dipinto, esse stesse escludono ogni attribuzione ai Cerezo. Appare ingiustificabile e fuorviante, allora, per la conclusione che se ne trae, la pubblicità che operatori turistici sciclitani e media locali stanno facendo a tale insignificante crosta.

A questo punto qualcuno della Soprintendenza o chi abbia avuto responsabilità in questo cambio dovrebbe spiegarmi per qual dannato motivo abbia ritenuto opportuno e importante far spostare questo quadro dalla sacrestia, nella quale per centinaia d’anni era stato dimenticato, al primo altare di sinistra in chiesa in sostituzione del Crocifisso di cartapesta ora, invece, confinato nella sacrestia.

Ma temo che morirò con questa curiosità senza che nessuno degli interpellati possa soddisfarla.

 

 

CREDITI

 

El Santo Cristo de Burgos y los Cristos dolorosos articulados, MarÍa José MartÍnez MartÍnez

Mateo Cerezo “el joven” y su padre en el convento santiaguista de Madrid: nuevas pinturas e hipótesis sobre su presencia, Jesús Ángel Sánchez Rivera, Universidad Complutense de Madrid

Vida y obra del pintor Mateo Cerezo, (1637-1666), J.R. BuendÍa e I. Gutiérrez Pastor, Diputación Provincial de Burgos, Burgos, 1986

Cristo de Burgos o de San AgustÍn en España, América y Filipinas, Antonio Iturbe SaÍz Osa, real Monasterio del Escorial

Il Cristo di Burgos, un’icona singolare di cui Scicli è custode, P. Nifosì

Diario de Burgos

  


© Riproduzione riservata