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Don Raffaè. Quando Fabrizio De Andrè celebrò Raffaele Cutolo

"Don Raffaele" di Fabrizio De Andrea. Significato della canzone. Quando Fabrizio De Andrè celebrò il capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo



 Il tema è la Trattativa, la trattativa fra lo Stato e i criminali. 

“Cà nun cari nu spillu/ senza Ciro Cirillo”. 

Che lo Stato si fosse rivolto, tramite i servizi segreti, a Don Raffaele Cutolo per chiedere la liberazione di Ciro Cirillo, era cosa ben nota. 

Correva l’anno 1981 e l’assessore ai lavori pubblici della Regione Campania, Cirillo, fu vittima di un sequestro durato 89 giorni. 
La Dc chiese al capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, ristretto all’ergastolo a Poggioreale, di intercedere per la liberazione dell’assessore della ricostruzione del dopo terremoto in Irpinia. 
“Cà nun cari nu spillu/ senza Ciro Cirillo”. 

Nove anni dopo Fabrizio De Andrè e Massimo Bubola scrivevano “Don Raffaè” e nel mezzo dei versi della canzone che accusava lo “Stato, che si costerna, s’indigna s’impegna/ poi getta la spugna con gran dignità”, mettevano una allusione esplicita al caso Cirillo. Il legale della casa discografica fu censorio: quella frase andava assolutamente eliminata dalla canzone. 
Fu tolta.  

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E Don Raffaè? 
Come nacque l’idea di celebrare un camorrista, anzi il capo della Camorra?
L’idea dell’Antistato era presente nella poetica di Fabrizio. L’idea fu sua. 
Bubola era stato in vacanza alle Isole Tremiti, dove dal 1792 al 1926 era stata ospitata una famosa colonia penale. I cognomi delle famiglie che per generazioni avevano svolto, di padre in figlio, il mestiere di guardie carcerarie si ripetevano. Una di queste famiglie erano i Cafiero. 

Come sempre, l’incipit di una canzone è fondamentale. E così Bubola il veronese e Fabrizio il genovese iniziarono: 
“Io mi chiamo Pasquale Cafiero e son brigadiero del carcere oinè”. 

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Qui c’è un omaggio implicito a Totò e alla canzone “Io mi chiamo Don Ciccio e mi firmo Don Ciccio Salsiccio”. 

Ma non è l’unico, perché alla citazione nella strofa corrisponde un’altra citazione nel ritornello: 

“Ah, che bellu cafè
sulo a Napule 'o sanno fà”
di Domenico Modugno. 

De Andrè, grazie alla musica di Mauro Pagani, mette insieme Totò e Domenico Modugno, e inizia il suo affresco. 

Fabrizio è la guardia carceraria che nel braccio speciale di Poggioreale porta il caffè a Raffaele Cutolo: il grande ospite, il capo, il Re di quel luogo popolato da infamoni, cornuti e lacchè. E come tale riverito e temuto. 

Sono gli anni dell’inchiesta sulle tangenti per la ricostruzione dell’Irpinia colpita dal terremoto, e non è un caso che un assessore dentro alle roulotte degli sfollati ci allevi -iperbolicamente- i visoni per pellicce; sostiene De Andrè, dalla tragedia l’Italia passa con disinvoltura alla speculazione della politica sulla tragedia, e qui si annida anche il cosiddetto scandalo delle “Carceri d’oro”. 

Il secondino dal canto suo gode della assoluta fiducia di Raffaele, al punto da fargli la saponata dentro quella cella, usando la lama più infida e pericolosa: “Vi faccio la barba o la fate da se?”

Del resto in carcere l’alternativa per un detenuto eccellente, che conosce tanti segreti scomodi per lo Stato è fra il “Campari” e il caffè, dove a volte qualcuno, come il mafioso Michele Sindona, ha trovato il cianuro al posto dello zucchero. 

Alla fine, con tono supplicante e umiliato, l’uomo che dovrebbe tenere in catene Raffaele Cutolo chiede al Capo un posto di lavoro per il fratello disoccupato.

Quando l’album “Le Nuvole” fu pubblicato in Italia si gridò allo scandalo.
Fabrizio De Andrè stava celebrando in “Don Raffaè” l’uomo col cappotto cammello che tutti avevano visto al maxi processo contro la Camorra.

E accadde che Cutolo si sentì in dovere di scrivere dal carcere a De Andrè per ringraziarlo della minuzia con cui aveva descritto alcuni sue abitudini in cella, che in maniera inusitata Fabrizio conosceva.
De Andrè non rispose mai a quella lettera. 

Cosa è Don Raffaè? 
E’ un capolavoro di Fabrizio De Andrè. 
Coraggioso, feroce, graffiante. 
Costruito metricamente e prosodicamente sul calco di “Bocca di Rosa”, ci consegna la capacità politica, intellettuale e morale di leggere e interpretare la realtà dell’Italia contemporanea per quello che è nella sua cruda e inaccettabile verità.
In maniera ostinata.
E contraria. 

La canzone è qui


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