Cultura Scicli

Villa Penna di Scicli e il suo segreto. Racconto di Natale

Dopo aver fatto i compiti a casa del nuovo compagno, Villa Penna era la nostra meta preferita

https://www.ragusanews.com/immagini_articoli/23-12-2023/villa-penna-di-scicli-e-il-suo-segreto-racconto-di-natale-500.jpg Villa Penna di Scicli e il suo segreto. Racconto di Natale


 Scicli - Narravo l’infanzia di un padre e mia a un figlio cresciuto di un amico e l’istante drammatico nel quale il destino ci aveva separato. Lo stesso destino che prima ci aveva fatto incontrare e scegliere fra una nuvola di bambini in una vecchia classe dell’antico plesso scolastico di via Perasso a Scicli il primo giorno di ottobre di tanti, tanti anni fa.

Spaesato, mi trovavo, come pulcino in una gabbia, dentro un’aula austera dove ancora i fasci littori erano presenti e leggibili, nell’immediato Dopoguerra sciclitano.

Guardavo gli altri piccoli, visi tutti sconosciuti, e non sapevo chi e quale posto scegliere in uno dei numerosi vecchi banchi di legno.

Ne rimase libero uno in prima fila. Il compagnetto seduto sul sedile accanto mi guardò con interesse e curiosità e m’incoraggiò con un sorriso e un gesto della mano a occuparlo. Era l’unico rimasto e doveva essere sicuramente il mio.

Cominciò così un’amicizia che è durata tutta una vita, anche se le nostre strade presto presero direzioni diverse.

Lui brillante, espansivo, gioioso, spigliato. Io, piccolo, mingherlino, timido e riservato. Ritrovavo in lui ciò che a me mancava.

Imparammo a convivere felicemente.

Io, figlio unico di genitori anziani, avevo trovato nell’altro l’interlocutore perfetto, il fratellino che non avevo avuto e mi mancava.

Anche l’altro bambino era figlio di genitori maturi e così scoprimmo grandi affinità elettive tra noi. Il bisogno di ritrovarsi, anche dopo le ore passate in classe, si fece subito forte.

Diventammo una coppia affiatata che presto in classe suscitò qualche invidia e qualche gelosia.

La maestra, una signorina originaria di Modica, osservava con molto interesse il nostro sodalizio e lo incoraggiava. Studiavamo con animo e profitto, eravamo sempre i più preparati, i più attenti, i più bravi della classe.

Dopo aver fatto i compiti a casa del nuovo compagno, Villa Penna era la nostra meta preferita.

Ricordo ancora un monumento quasi intatto, con i vialetti non devastati, un’enorme vasca dove nuotavano pesciolini colorati fra le acque limacciose e putride. Cipressi, verbene, buganvillee e palme erano testimoni silenziosi e dolenti di un degrado che si annunciava imminente e imperdonabile.

Aspettavamo il tramonto sopra un muretto. Il sole lentamente scompariva dietro una fila di fabbricati vetusti e imponenti, in parte diroccati, dentro i quali a volte ci avventuravamo come pirati salgariani in cerca di tesori nascosti.

Una parte della villa era celata ai nostri occhi da uno steccato alto. Non ci curavamo molto di capire che cosa quel recinto custodisse.

A partire da un giorno di gennaio, un nugolo di ragazzi più adulti di noi invase il nostro territorio e la nostra tranquillità con archi e frecce e fionde alla mano.

Ci sentivamo assediati in casa. Spesso per paura fuggivamo, al loro avvicinarsi, guadagnando di corsa la strada pubblica.

Uno strano traffico di uomini e mezzi in giornate particolari interessava la villa. Eravamo contenti di queste presenze perché i nostri invasori, in quelle occasioni, si tenevano prudentemente alla larga.

Trascorse così tutto l’inverno. Arrivò la primavera. I viali si tinsero di fiori inselvatichiti. Nell’aria un profumo anestetizzava i sensi.

Avevamo pochi compiti quel giorno di maggio. Uscimmo di casa e ci incamminammo verso la villa.

Da un lato seminascosto notammo una parte del gruppo nemico acquattato dietro la palizzata. Ragazzi sostenevano altri a cavalcioni sulle spalle e spiavano oltre le assi dello steccato.

Gli invasori notarono subito la nostra presenza. Qualcuno a gesti ci faceva segno di allontanarci.

Non capivamo.

D’istinto il mio compagno si avvicinò allo steccato e attraverso una piccola fessura cercò di sbirciare anche lui l’interno del recinto.

- Che cosa vedi? – Chiesi curioso.

- Molti uomini, dei cavalli, sembra un grande circo… - Non finì la frase perché arrivò una fiondata che per poco non lo colpì alla testa.

-Scappiamo! – Mi gridò, vedendo venire minaccioso il gruppo. – Se ci prendono, sono botte. –

Cominciammo a correre all’impazzata, inseguiti.

Arrivammo a casa sua trafelati. Fingemmo di ripassare la lezione, pur di non destare sospetto alcuno.

Gli altri giorni non andammo alla villa. La paura di ritrovare gli invasori era così grande che ci bloccava.

Maggio era agli sgoccioli e con maggio anche l’anno scolastico.

Fummo promossi a pieni voti. L’estate ci divise. Nell’ottobre seguente, il primo giorno di scuola, tra il chiasso e gli abbracci nel grande corridoio, il mio compagno ed io aspettavamo che ci comunicassero la classe.

Il direttore didattico prese la parola. Di colpo il vocio si spense.

- Tutti i bambini che ora chiamo, vengano da questa parte. – Tuonò da un gracchiante microfono.

Sentii pronunciare il mio nome ma non udii il nome del mio amico. Mi colse l’ansia.

Facevo parte di un lungo serpentone che alcune maestre guidarono verso un altro corridoio.

Un signore magro, alto, mi fece segno di seguirlo. Era il mio nuovo maestro. Ero stato destinato al nuovo plesso scolastico di via san Nicolò. Cominciai a piangere. Non volevo andare con lui. Volevo rimanere col mio amato compagno di banco. Tornai a casa in lacrime. Mia madre per consolarmi fece un timido tentativo con il direttore. Non ci fu nulla da fare. Ci avevano divisi, il mio compagno ed io, perché troppo bravi e brillanti in un’ottica di bilanciamento delle nuove classi. A mia madre fu detta questa verità. Cercò di convincermi, povera donna, che potevo frequentare il mio amichetto come volevo e quante volte volevo nonostante tutto, ma nulla era più come prima. Si era infranto un incantesimo.

Dopo quella prima separazione, la vita ci ha obbligato a scelte sempre più diverse, anche se i sentimenti della prima infanzia tra noi sono rimasti inalterati, uguali.

Villa Penna, in seguito, subì un colpevole abbandono che quasi la cancellò. È stata ricostruita di recente ma non è più splendente e mitica come allora.

Le bande di ragazzi, non la abitano più. Diventati giovani e poi adulti, gli uomini nuovi non sono stati capaci di difendere questo prezioso spazio urbano da un abusivismo aggressivo armato non più di fionde e frecce ma di penne e di carta bollata.

Fu smontato anche quel recinto misterioso e proibito perché, dopo tante sollecitazioni, la stazione di monta equina è stata trasferita dai funzionari del comune in un luogo più appartato e funzionale del territorio cittadino.

Anche se del glorioso passato è sparita quasi ogni traccia, Villa Penna ha conservato tuttavia il fascino del suo mistero nella mia memoria. Spesso, quando mi trovo a passare davanti al cancello che oggi la chiude, rivedo ancora due ragazzini che si erano scelti fra vecchi banchi di scuola, che si volevano bene come solo i bambini sanno fare, che avevano scoperto fra i suoi antichi viali, carichi di storia, la vera forza della vita.

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