Cultura

Un Uomo Libero: Il té di Fatima



Il senso profondo dell'ospitalitá tutto orientale; la grande "devozione" per il passeggero e lo straniero; la gratitudine infinita che suggeriva sempre un gesto liberale. Il té non si produceva in questi paesi. Lo importavano gli inglesi e veniva scambiato nei porti commerciali come merce rarissima e preziosa, una spezia appunto. O arrivava in quei posti portato dalle carovane e, quindi, venduto a prezzi incredibili. Per questo veniva offerto all'ospite, per sottolineare l'importanza e la gioia che la sua visita dava. Per dire con un gesto semplice quello che le parole non potevano esprimere. Tutta la letteratura orientale é intrisa di meditazione coranica, della giustizia degli uomini che trova nel premio finale il merito tangibile della giustizia di Dio.


IL TÉ  DI FATIMA

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Un Uomo Libero

 

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Il pomeriggio era luminoso e caldo. Girovagavo apparentemente senza una vera meta, perduto nel bailamme del souk, stordito dagli odori forti delle spezie ammucchiate sopra grandi assi di legno. Colori intensi per un cielo pallido. Mi urtó un venditore di fichidindia mentre il suo asinello correva per l'angusto corridoio nel quale eravamo costretti. Un codazzo di bambini implorava qualche spicciolo a pioggia. Era inutile consultare una cartina. Raramente conteneva il nome delle strade. Cercavo,“in effetti”, l'antica sinagoga nel cuore del quartiere ebraico. Doveva essere da quelle parti. Il tassista, in uno stentato francese, mi aveva indicato pressappoco il posto. Mi informai con un venditore di scarpe, il cui viso mi parve incoraggiante ed affidabile.

- Non é lontano da qui. - Rispose in un francese affabile e corretto. Poi si rivolse ad un ragazzo che, dentro il negozio, lavorava ad una vecchia macchina per cucire, fabbricando appunto calzature. Il ragazzo si fermó. Ascoltó in arabo i suoi comandi. Venne verso di me con un sorriso stupito e inorgoglito.

-Ibrahim lo accompagnerá. É bravo e onesto, di lui si puó fidare.- Mi disse indicandomi la guida.

Non potevo rifiutare. Non avrei piú potuto. Ibrahim mi precedeva, districandosi a meraviglia in quella confusione che era stata da sempre tutta la sua vita. A tratti si volgeva indietro per assicurarsi che non mi fossi perso. Mi ringraziava con un sorriso se gli facevo un gesto con la mano. Entrammo per una piccola porta in una stradina lunga e  stretta, dall'acciottolato quasi scomparso, brulicante di bambini che giocavano a terra e di uomini sdraiati all'ombra dei muri delle case.

-Da qui inizia il quartiere ebraico. - Disse.

La sua voce era dolce, modulata. Gli occhi vispi e intelligenti.

Ci perdemmo in un dedalo di viuzze affollatissime come la prima.

-Dietro quell'angolo c'é  la sinagoga. – Mi avvisó fiero e impettito, mentre sbirciava, malizioso, gli sguardi invidiosi degli uomini che ci accompagnavano nel nostro cammino.

Infilammo una porta che dava in un vasto cortile. Ibrahim parló con un vecchio dalla barba bianca e lunga. Il vecchio si alzó, pescó da una tasca nascosta del suo caffettano una piccola chiave ed aprí per noi le porte della sinagoga piú antica della cittá. I muri, grossolanamente imbiancati a calce, erano a fasce dipinti di azzurro. Un candelabro a sette braccia, placcato d'oro, la menorah, emergeva, in un tavolo appoggiato al fondo di una parete, severo e ieratico, su un tappeto di lumini che ardevano nel caldo di quel tardo pomeriggio. Davanti al tabernacolo una lampada d'olio brillava, calata dal tetto. Una piccola cattedra sopra un leggero rialzo serviva di altare all'officiante per appoggiarvi la Torah. Il vecchio spiegó che era una sinagoga sefardita proprio per la presenza di quel particolare. Uscimmo. Il custode mi tese la mano per chiedere un obolo. Diedi qualche dirham ma lui non si mosse ed attese. il ragazzo capí e mi fece notare che era troppo poco come elemosina. Perché l'uomo si sarebbe aspettato di piú. Vuotai nelle sue mani tremanti e rinsecchite il mio borsellino e finalmente sorrise.

- É un quartiere molto, molto povero. – M'informó Ibrahim quando ritornammo sulla strada. - Quell'elemosina non serve a lui, serve alle necessitá del tempio. - Aggiunse.

-Dove andiamo?- Domandai diffidente.

Facevamo una strada diversa per ritornare.

-Prima di lasciare il quartiere ebraico non puoi non andare a casa di Fatima.- Rispose Ibrahim.

-Ma Fatima non é un'ebrea. Chi dunque é costei?-

- Si. - Convenne. - Ma qui islamismo ed ebraismo convivono pacificamente. Non é come tu pensi.-

Ci addentrammo ancora di piú nel labirinto di viuzze strette e tortuose fino a raggiungere un grande portone sul quale resistevano tracce di un'antica vernice. Ibrahim bussó con una pesante mano di bronzo. Venne ad aprirci una giovane donna vestita di nero, velata, dagli occhi scuri e timidi, dai gesti sfuggenti, che lo riconobbe. Richiuse il portone alle nostre spalle. La seguimmo per un grande corridoio in penombra fino ad uno splendido patio i cui muri erano fantasticamente decorati da ceramiche variopinte e smaltate. Al centro una fontana di marmo con il mormorio leggero delle sue acque suggeriva una calma dell'anima, un diverso  e per me nuovo scorrere del tempo. Ibrahim si sedette e m'invitó a fare altrettanto. Un antico pergolato ci faceva dono della sua ombra mentre aspettavamo che comparisse Fatima. La donna non tardó a venire. Era anche lei velata ma i suoi occhi tradivano un'etá venerabile. Adornata di gioielli come un'antica regina berbera, ci salutó con un inchino ed una voce dolce che sembrava non vera. Le sue mani erano splendidamente dipinte con henné. Raccontó la leggenda di quella vetusta dimora dove era stato rinchiuso un antico re moro e della sua amante che lo cercó per terre e per mari e alla fine lo trovó lí morente, in catene.  Che lo curó con filtri e pozioni ma fu il suo amore che lo fece guarire.  M'invitó a recitare una preghiera vicino alla fonte,  "cosí il suo spirito potesse ascoltarla e, per l'amore della sua donna, potesse ancora vivere a lungo nel ricordo degli uomini." Ibrahim, quella preghiera la conosceva a memoria. Mi suggerí lentamente i suoni e le cadenze. Alla fine Fatima batté forte le mani. La ragazza che ci aveva accolti arrivó con una splendida teiera e due bicchieri e li lasció sopra un piccolo tavolo. La donna alzó il bricco nell'aria e ne fece scaturire un getto di té alla menta profumatissimo e caldo. Lo bevvi con l'aviditá dell'antico fanciullo. Poi mi prese con dolcezza la mano e ne scrutó la palma.

-Hai sofferto molto. - Tradusse per me Ibrahim.- Peró Fatima dice che morirai felice perché tu sei un uomo giusto.-

La ringraziai. Non credevo nelle profezie e questa mi sembró solo una maliziosa captatio benevolentiae. Il té era veramente squisito, sicuramente eccezionale.

Mi ricordó mia madre e le sue leggende. La sua triste ma tanto rimpianta avventura africana. La dimora di Barce, con il patio, il pergolato, Birnía e sua figlia Nécia, le due donne indigene che l'aiutavano in casa. L'amore disperato di Yusúf, un ragazzo al quale Nécia fu a lungo negata e che si lasció morire di quell' amore. L'intenso profumo di menta che si spandeva sulla terrazza della nostra antica villa siciliana quando, agli inizi di ogni villeggiatura, i vicini venivano a visitarci e mia madre li accoglieva servendo loro, appunto, del té. Chiamai in disparte Ibrahim e gli chiesi di ripetermi la preghiera. Il ragazzo obbedí. Ritornai alla fonte e la recitai per Lei che mi mancava, per le sue storie che a lungo erano state custodite dal mio cuore, perché il suo spirito potesse ascoltarla, attraverso l'acqua, e vivere ancora a lungo del mio amore. Lasciai un biglietto da cento dirham che fu accettato con una litanica ed infinita benedizione. Ripartii dalla casa di Fatima pacificato con le mie memorie. Ad Ibrahim che mi permise questa esperienza regalai una lauta mancia.

-Monsieur, -esclamó il ragazzo - Fatima é una famosa veggente, sa riconoscere il cuore dell'uomo, tu sei veramente quello che Lei ha visto.-


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