Cultura Taormina

Il meraviglioso anacronismo del Gruppo di Scicli

Nove artisti e nove linguaggi diversi all'insegna di un'unica emozione



Taormina - Tra le definizioni che il vocabolario (il Treccani, per la precisione) ci dà di "anacronismo" c'è quella di «errore cronologico per cui si attribuiscono a un'età istituti, idee o costumi discordanti dal quadro storico di essa».

Ecco, diremmo che la mostra "Il gruppo di Scicli" (inaugurata a Taormina sabato scorso e fino al 30 agosto nel Palazzo dei duchi di Santo Stefano, promossa e realizzata dalla Fondazione Mazzullo e dall'Associazione culturale "MIRos", col patrocinio della Provincia di Messina e del Comune di Taormina, e con molte altre partecipazioni organizzative) sia anacronistica, felicemente e meravigliosamente anacronistica.

E non solo perché, come nota acutamente in catalogo il curatore Lucio Barbera, per questa sua caratteristica «diventa, al contrario, "rivoluzionaria" e trasgressiva». Anche, aggiungerei, perché trascende la dimensione temporale, non è legata al suo tempo ma neppure a un tempo in generale, quindi supera i confini, spesso angusti per necessità, in cui agiamo, vive in un territorio dell'oltre. Dove la pittura è pittura e non "deve" meravigliare, attirare, colpire l'attenzione come se fosse un nuovo format televisivo.

Nei nove artisti del Gruppo di Scicli (Alvarez, Candiano, Colombo, Guccione, Paolino, Polizzi, Puglisi, Sarnari, Zuccaro), pur nell'assoluta diversità di stili, di ispirazioni, di necessità narrative, c'è un forte punto in comune che non è, se non forse in parte, l'area geografica che va dall'antica Contea di Ragusa fino a Catania e che spazia dal mare alla campagna, alla realtà metropolitana. Si tratta, a me sembra, d'una capacità più evoluta della media di dipingere emozioni, di metterle su tela, di trasmetterle a chi guarda. Non l'emozione-shock, che dura lo spazio d'un attimo, simbolo com'è del "consumo" a ogni costo, bensì le "vecchie" emozioni interiori, quelle che ci portiamo dentro, che stanno comunque nel nostro dna, anche a volerle comprimere o ignorare.

Si potrebbe dire che gli artisti del Gruppo di Scicli ci forniscano con le loro opere le cellule staminali (quelle che riproducono e ricreano tessuti ormai necrotizzati dalla desuetudine), talché dalla loro mostra si esce comunque trasformati, anche non del tutto consapevolmente. Così questa esperienza artistica cominciata nel 1981 col ritorno di Piero Guccione, già pittore affermato, nella propria terra e col trasferimento del romano Franco Sarnari, e poi a poco poco allargatasi alla francese Sonia Alvarez – compagna di Guccione – e ad altri artisti della zona, anche loro con alle spalle momenti importanti lontano dalla Sicilia e, man mano, di altri più giovani provenienti da Catania, si è storicizzata in vita senza perdere l'impeto di una creatività mai effimera e fine a se stessa.
La conseguenza, evidente, è che questa mostra della Fondazione Mazzullo non è una collettiva ma un insieme di nove personali, ognuna delle quali è un percorso compiuto, che vale di per sé la visita. Certo, gli olî di Piero Guccione colpiscono sempre per la loro rappresentazione del sublime, dove mare e cielo si annullano a favore delle sfumature, che diventano prevalenti. È come se la luce del sole, che non appare direttamente pur essendo protagonista, si diverta a velare e a scegliere una tonalità piuttosto che un'altra, a puntare verso l'infinito che nella tela può diventare da un momento all'altro più reale delle onde del mare. E negli interni di Sonia Alvarez sembra che penetri sempre almeno un raggio di quella stessa luce di Guccione, tanto che i dipinti dei due artisti – stilisticamente del tutto differenti – sembrano gli uni il seguito o il prima degli altri. E anche nel realismo di letti e coperte della Alvarez si colgono altre sfumature, di un racconto che appare fra un ciuffo di capelli e una finestra aperta sullo sfondo.

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C'è poi Carmelo Candiano, l'unico scultore del Gruppo, che trae movimento e vita dai suoi "Girasoli" su materiali diversi: dal marmo di Carrara alla pietra arenaria e alla pietra pece. Con una puntata sulla cronaca più desolante attraverso le "Finestre" che inglobano in gabbie di metallo la nostra spazzatura quotidiana. Giuseppe Colombo, di Modica, è il più giovane. Il «nitore» della sua pittura esalta paesaggi mentali, dove l'occhio si abitua a cercare oltre, tanto che i suoi "Peri in fiore" sembrano un intrico di bellezze e di paure. Anche i paesaggi di campagna di Salvatore Paolino appaiono nitidi e chiari al primo sguardo, ma basta il secondo per capire che la terra, gli alberi, i fiori non sono fermi, sono colti (attraverso l'emozione) nel movimento assegnato loro dalla natura. Più scoperto il "non realismo" di Franco Polizzi che si serve della luce, o meglio dei bagliori, per creare situazioni fantastiche anche coi monumenti più noti (per esempio, S.Giovanni degli Eremiti). Colpisce l'occhio la pittura di Giuseppe Puglisi, catanese, realista e surreale nello stesso tempo, cantore d'una decadenza metropolitana che si oppone inutilmente alla natura, mentre nei ritratti le teste, i luoghi delle mente, sono offuscati, pronti a sparire. Franco Sarnari, il meno giovane del Gruppo, nelle infinite vie da lui sperimentate, torna a cimentarsi con la serie dei "Neri" in cui va segnalata la particolarità che il colore assoluto è ottenuto per strati di tanti colori che smarriscono la loro identità fino all'uniformarsi nel nero.

Insomma, un messaggio.
Infine, Piero Zuccaro, altro catanese, con una pittura materica che sembra ricordare l'astrazione informale. Invece, specie nella serie "Orme d'acqua", le impronte umane prevalgono, tanto che quelle acque sembrano diventare inquietanti sabbie mobili. Tutt'altro che astratte.


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