Cultura Scicli

Lazzarella

Dopo un inno mariano, intonammo un sacrilegio

https://www.ragusanews.com/resizer/resize.php?url=https://www.ragusanews.com/immagini_articoli/12-09-2015/1442092990-0-lazzarella.jpg&size=498x500c0 Dopo un inno mariano, intonammo un sacrilegio


Scicli - Fu un giorno di settembre. Un umido scirocco confondeva il cielo con il mare.
Arrivai alla villa con qualche minuto di anticipo. Suonai al campanello. Venne ad aprire una giovane donna che subito per l’accento e le fattezze credei straniera.
E, in effetti, straniera lo era.
Fu molto gentile con me. Mi guidò per un lungo viale di palme a un vasto giardino che si estendeva dietro la casa.
M’indicò una comoda poltroncina di vimini sotto un immenso e frondoso carrubo.
Il professore non si fece attendere.
Arrivò con la sua tipica andatura, trotterellando. Mi accolse con un largo sorriso mentre mi salutava.
-Eccoci! – Disse, prendendo dalla bocca la sua inseparabile pipa e nascondendola dentro la mano carnosa.
Ero confuso. Come sempre le persone veramente grandi sono le più umili e vere. Spiazzano.
Accesi il mio computer, sistemai il microfono del registratore sul tavolino che ci divideva, di fronte a lui, e iniziò così un’intervista che non so più da quanti anni avevo desiderato fare.
-Sono nato povero. –Disse subito il professore, quasi a voler mettere le mani avanti sui suoi modesti natali. – I miei genitori abitavano in una casetta che dentro era grotta, dalle parti di Santa Maria La Nova a Scicli. Mio padre era specialista in muri a secco. Povero Cristo! Faceva di tutto pur di non farci mancare il pane. Mia madre era una lavandaia ed eseguiva qualche rammendo quando capitava l’occasione. La Seconda Guerra Mondiale aveva distrutto, più che il paese, le nostre vite. Quando decisi di iscrivermi al Liceo Scientifico, a metà degli anni Cinquanta del Secolo Scorso, fu una vera tragedia. Il fratello maggiore mi diede un sacco di botte. Secondo lui ero un parassita, tutti quelli che studiavano erano parassiti. Mio padre disapprovò la mia scelta ma mia madre mi difese a spada tratta e fu per questo che loro non dissero più nulla.
Mio padre propose di cercarmi un lavoretto pomeridiano perché anch’io potessi contribuire alle spese familiari. Accettai.
Prima fu un calzolaio, ma guadagnavo pochissimo. Poi feci l’aiuto fornaio. La paghetta era discreta. Racimolavo il pane gratis per tutta la famiglia. Dovevo solo alzarmi molto presto la mattina. Ma non importava. L’orario delle lezioni era salvo e il pomeriggio addirittura potevo studiare.
Negli intervalli di tempo, quando non morivo di sonno, provavo con la banda municipale che si riuniva tutti i giovedì pomeriggio in un vecchio e grande basso dell’Opera Pia Carpentieri in Via Santa Teresa, a ridosso del Corso.
Avevo imparato da piccolissimo a suonare il flauto.-
La pipa, soffocata dalla mano, si era spenta. Il professore la guardò con diffidenza e rabbia. Cercò in tasca la scatola dei cerini, ne estrasse uno e la accese di nuovo, portandola alle labbra. Fra nuvole di fumo continuò il suo racconto.
-È inutile dire che ero il più bravo della classe. Ero minuto, non dovevo neppure essere tanto attraente per una ragazza della mia età. Crescevo male e lavoravo tanto.
La Sicilia non aveva conosciuto la guerra e i suoi disastri come altre regioni italiane del Nord o altre parti dell’Europa ma gli effetti deleteri erano arrivati anche fin quaggiù.
Appena compii diciotto anni, m’iscrissi al Partito Comunista. La tessera non comportò per me nessun costo in quanto molto povero. Ho però sempre nutrito il sospetto che me la avesse regalata il mio professore di filosofia, convinto assertore delle filosofie marxiste, mio grande estimatore.
Mi preparavo agli esami di Stato e non potevo continuare a lavorare e a studiare.
Il fornaio mi concesse qualche mese d’aspettativa.
Una sola commissione avrebbe dovuto esaminare tanto le studentesse del Corso A quanto gli studenti del Corso B del Liceo.
Per la prima volta i professori avevano deciso di unificare i due corsi.
La vicinanza delle ragazze fu uno sprone per noi maschietti a studiare di più ma anche inevitabilmente un’occasione irripetibile per poterle abbordare.
Gli effetti del progresso si facevano sentire anche in questa parte dell’Isola, nonostante fosse incredibilmente impermeabile a qualsiasi forma di modernismo e di apertura sociale.
M’innamorai, com’era prevedibile, perdutamente di una compagna di corso.
Giovannella era una ragazza rotondetta, bellina, bravina a scuola quanto bastava. Di famiglia non ricca ma neppure povera.
Il padre era un dirigente sindacale; la madre, profuga dalla Libia, era stata assunta come bidella, grazie anche alle conoscenze del marito.
Dopo aver superato brillantemente gli esami di Stato, una lunga estate mi avrebbe aiutato a scaricare tutte le tensioni accumulate.
Giovannella villeggiava a Donnalucata. I suoi avevano costruito una casetta a ridosso delle dune della spiaggia di Micenci, la meta preferita del nuovo rampante ceto comunista pseudo borghese.
Distinguevo da lontano il suo ombrellone enorme, variopinto.
Lei m’invitò timidamente sotto la sua ombra una volta che “per caso” mi trovavo a passare lì vicino.
Ogni mattina capitavo per caso nei paraggi, infatti. E il pomeriggio pure, quando il mare era bello e non c’era vento.
Tutto luglio trascorse così, con me che recitavo quest’incredibile commedia buffa.
Il pomeriggio spesso, Giovannella ed io, andavamo insieme allo chalet non molto distante per bere una bibita fresca, per ascoltare gli ultimi successi di Domenico Modugno o di Carosone da un enorme e ingombrante juke-box.
Il film Maruzzella con Marisa Allasio era stato il primo musicarello della storia del cinema italiano.
Lo avevamo visto assieme nella trascorsa primavera al Cinema Italia di Scicli in compagnia di una folta comitiva.
Quell’estate invece impazzava Lazzarella. Anche se la canzone era di Domenico Modugno, Renato Carosone ne aveva fatto un altro dei suoi successi personali e imperdibili.
E fu proprio “Lazzarella”, questa canzone di Modugno che a Giovannella piaceva tanto, a segnare quel tempo, a rimanere scolpita nella mia memoria.
Giovannella alla fine di luglio cominciò a sfuggirmi. Il suo viso, che mi aveva fatto tanto sperare, si fece d’improvviso malinconico e triste e un giorno d’agosto qualcuno mi sussurrò all’orecchio che i suoi la avevano fidanzata a Peppino, il figlio di don Ciccino il vigile urbano, una famiglia appartenente allo stesso ceto sociale della ragazza.
Il promesso sposo era stato assunto da pochissimo come messo comunale, grazie a qualche parolina spesa in suo favore dal Comandante dei Vigili urbani in persona. Tutto un pateracchio di partito, in effetti. Una cosa decisa a tavolino tra compagno sindaco, comandante dei vigili urbani e il futuro suocero, storico sindacalista della CGIL.
Ci rimasi male. Soprattutto quando chiesi a lei direttamente se la notizia era vera.
Capii che non potevo più frequentare il suo ombrellone, anche perché da qualche giorno era comparso il pretendente ufficiale e l’aria che si respirava si era fatta davvero pesante.
Nella vigilia di Ferragosto era consuetudine trasportare in processione il simulacro della Madonna Assunta da Donnalucata a Cava d’Aliga, altra nuova delirante meta dei parvenu di quegli anni.
Su un peschereccio i marinai caricavano il fercolo. Andavano anche il parroco e le autorità.
In un altro peschereccio viaggiava la banda con la quale suonavo.
La processione era accompagnata da alcune decine di barche e barchette che lasciavano scie bianche come code di comete sul mare azzurro lapislazzuli.
Anche in quella vigilia la processione mosse ordinata dal molo di Donnalucata verso oriente, cioè verso Cava d’Aliga.
Costeggiavamo la spiaggia perché i bagnanti potessero seguire da terra il devoto pellegrinaggio.
D’un tratto, sull’arenile, riconobbi il suo ombrellone variopinto ed enorme. Pensai a Giovannella in compagnia del suo promesso. Una gelosia che non seppi controllare mi spinse a prendere accordi con altri suonatori all’insaputa del maestro perché una particolare canzone potesse ricordarle il mio amore mortificato.
Il risultato glielo lascio immaginare e l’epilogo pure. Fu una ragazzata, in effetti.
Dopo un inno mariano, intonammo “Lazzarella” e non smettemmo più di suonare la marcetta fino a quando l’ombrellone si fece così lontano da diventare un punto quasi indistinto.
Il maestro era avvilito e su tutte le furie per non aver saputo impedire quel mezzo sacrilegio.
Dal peschereccio, nel quale viaggiavano la statua della Madonna, il parroco e altri, facevano gesti vistosi di interrompere la musica.
Ogni tentativo risultò inutile.
Vista l’impossibilità di far tacere la banda, al comandante del peschereccio venne allora un’idea brillante. Cercò di coprire con la sirena il motivetto che ci ostinavamo a suonare. Il rimedio, purtroppo, fu peggiore del male, non le dico il casino che venne fuori.
Quando sbarcammo sulla spiaggia di Cava d’Aliga il maestro gridava come un ossesso e il parroco faceva a gara con lui.
Fui espulso dalla banda comunale, ovviamente.
Dopo questo scandalo, mio fratello maggiore mi propose di raggiungerlo in Germania, dove lui da alcuni anni era già emigrato.
Lasciai il paese a malincuore.
In Germania appresi il tedesco prima alle scuole serali, poi cominciai a frequentare l’università. Mi laureai.
Lavoravo e studiavo. Mi guadagnavo da vivere facendo il traduttore e impartendo lezioni d’italiano a domicilio.
Conobbi Günter Grass. Mi ero iscritto al Partito socialista tedesco.
Lui era già uno scrittore famoso e anche il mio preferito. Aveva pubblicato nel 1959 il “Tamburo di latta”.
Scrissi su un noto giornale tedesco una recensione al suo romanzo che fu molto apprezzata. Qualcuno la lesse e mi notò.
Feci un concorso per diventare professore associato alla cattedra di “Lingua e letteratura italiana” a Berlino. Lo superai.
L’università mi spalancò le porte più sprangate della cultura tedesca.
La Statale di Milano mi offrì un interessante contratto come professore di “Lingua e letteratura tedesca”.
Accettai. Diventai uno dei traduttori più richiesti dagli scrittori tedeschi.
Sposai Frieda, una donna molto intelligente e colta di Monaco. Fu la mia prima assistente.
Mi diede una figlia. Entrambe odiano la Sicilia. Troppo calda per loro. Al mare preferiscono le montagne e i boschi della Baviera. Sono in vacanza là, infatti.-
-Ma la ragazza che mi ha accolto non è sua figlia, dunque?- Lo interruppi.
Lui esplose in una forte risata.
- No. No. – Rispose con un tono di voce molto rassicurante e divertito. –È la mia governante. Da un uomo vecchio come me non c’è più nulla da temere. Nonostante tutto, si ostinano a farmi guardare a vista. Perché nulla mi manchi, loro dicono. -
- Non capisco perché ritorna in Sicilia, allora...- Azzardai.
Lui mi guardò e, aspirando forte dalla pipa, rispose canticchiando:
-‘Ma lazzarella comme si’, a mme me piace sempe ‘e cchjù.... ah lazzarella o tiempo comme vola...-
-Non mi dica che ancora pensa a Giovannella...- Insinuai in un eccesso di confidenza.
-Macché! –Rispose lui, ridendo. La sua faccia diveniva, però, sempre più seria.
-L’ho rivista qualche anno fa. Lei non mi ha riconosciuto ma io sì. Era grassa, imbruttita, forse ora mi sarei pentito d’averla sposata. – Tacque pensieroso.
-Perché ritorno? Vuole saperlo? – Domandò.
-Perché ho nostalgia di quelle albe che mi servivano a costruire una vita diversa che, allora, mi appariva lontana, non fatta per me. Parlavo alla luna che ancora si attardava nel cielo, alle stelle che le facevano da corona. Ero un uomo felice perché non avevo niente e nessuno poteva rubarmi ciò che era solo mio: la poesia del sogno.
Lazzarella appartiene, dunque, a quel tempo. Al tempo della fantasia e della non ragione. È una pagina di un libro voltata da troppi anni ormai e sulla quale ritorno ogni volta che posso perché non riesco a sottrarmi al fascino segreto delle sue parole.
Avrei dovuto fermarlo quel tempo, viverlo intensamente, spenderlo in questo posto magnifico lontano dal quale non so vivere, ma non ne ho avuto il coraggio e ho scelto, invece, di andare avanti, di crescere come il bambino Oskar del “Tamburo di latta”. A proposito, sa dove finì quel nano dopo essersi deciso a crescere? – Mi chiese.
- No. – Risposi, impreparato. – Non conosco quel romanzo. – Confessai.
- Finì in manicomio. – Spiegò e poi aggiunse amaramente: -Egregio amico, la nostalgia e l’ambizione hanno un prezzo che spesso è pura follia.-
Arrivò la governante. Mormorò qualcosa in tedesco.
-Ecco! – Esclamò desolato. – L’incantesimo si è rotto. Mi chiamano da Monaco in videoconferenza. La devo salutare.-
Si alzò, mi diede la mano e, questa volta, curvo quasi sotto il peso degli anni, si avviò verso il portone della villa. Triste, malinconico, ingannato dal suo stesso destino.

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