"Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (seconda lettera di Paolo ai Corinzi)
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“Ma or convien che 'l mio seguir desista. Più dietro a sua bellezza poetando, Com'all'ultimo suo ciascuno artista” (XXX canto del Paradiso, Dante Alighieri)
Scicli - Giorgio Agamben (Roma, 1942) è stato amico di Piero Guccione. E sabato 5 ottobre ha voluto ricordare, a un anno dalla scomparsa, la figura dell'artista in una memorabile lectio a palazzo Spadaro.
Nel farlo ha preso le mosse dal Tiziano "impressionista" che a un certo punto sembra "spezzare" la propria pittura, e dall'ultimo Giorgio Caproni, poeta che dopo aver raggiunto una tessitura melodiosa della prosodia, la spezza riducendosi a quelle che Andrea Zanzotto chiama "righe mozze", non più versi. Un po' come negli Inni Tardi del poeta Friedrich Berlin, dove addirittura il verso scompare, è composto da una sola parola, "aber", in tedesco “ma”. Ecco, qui la struttura della poesia sembra essersi rotta.
Tale riflessione, sulla poesia e sulla pittura spezzata, serve ad Agamben per introdurre l'ultimo Piero. "Mi sembra che nell’opera tarda di Piero Guccione avvenga in un certo senso il contrario. Nei suoi ultimi quadri egli sembra voler unire, saldare, attenuare, ricucire ogni frattura e opposizione. Si potrebbe parlare di una scrittura continua, senza cesure né punteggiatura".
Guccione disse una volta che la sua pittura voleva fare incontrare il mare e il cielo. E negli ultimi anni ha cercato di realizzare questo incontro impossibile. "La stesura dei suoi quadri si stende come se a dipingere fosse l’occhio di Piero e non più la mano", spiega Agamben.
Come se il nostro dipingesse solo con la luce, quella luce che un geniale filosofo del trecento, Roberto Grossatesta chiamava "forma corporeitatis", la forma del corpo, intendendo che la luce non è quella che ci fa vedere i corpi, ma la forma stessa dei corpi.
Grossatesta non poteva immaginare che un giorno Guccione sarebbe riuscito a dipingere solo luce senza più corpi, in cui tutto sembra indeterminarsi.
Agamben sostiene che per l’ultimo Guccione si possa parlare di un'arte della soglia, non nel senso della divisione, ma di una zona in cui gli opposti sfumano in una indeterminatezza, in una indifferenza, fino a far coincidere il cielo e il mare, la linea e il colore, la luce e l'ombra.
In un testo del 1998, del resto, Piero cita Ravel, il quale affermò una volta che tutto il piacere della sua esistenza consisteva nell’incalzare la perfezione sempre più da vicino.
"Credo che questa affermazione non sia più vera per l’ultimo Piero, che non incanta più, non insegue la perfezione, piuttosto la attende pazientemente o febbrilmente, per arrendersi a essa senza condizioni".
C’è una terzina del Paradiso di Dante, che esprime questo concetto, nel canto trentesimo, prima della visione estrema: “Ma or convien che 'l mio seguir desista. Più dietro a sua bellezza poetando, Com'all'ultimo suo ciascuno artista”.
Cosa vuol dirci Dante? Nell’ultimo dell’arte, quando il poeta arriva al suo estremo, il suo culmine, desiste, non insiste.
Verbo curioso. Perché desiste?
"Nel punto estremo l’artista non può che lasciare la presa, prende, insegue, lasciando la presa, e solo così va più dietro alla sua bellezza.
Con questo desistere più dietro alla bellezza, bellezza che l'artista, arrendendosi, tocca, sembra che i quadri di Guccione entrino in una soglia in cui finito e non finito, lontano e vicino, perdono di senso.
Per questo, ora, ripensando una delle ultime visite che ho fatto a Piero quando dipingeva nel suo studio, delle tele in cui c’è solo luce, egli diceva che non riusciva a finirle, ma aspettava il miracolo, che mettesse fine a queste pitture".
Nessuno degli ultimi quadri di Piero è finito. Tale affermazione è vera a condizione che non si pensi che la sua sia la "tecnica del non finito" così cara a Michelangelo, che sembra a volte lasciare intenzionalmente non finite le sue opere.
Quello di Guccione non è un "non finito intenzionale", ma è come se a un certo punto della desistenza, compiutezza e incompiutezza non avessero più senso. Non ha senso chiedersi se i quadri siano finiti. Tali categorie sono inadeguate a questi quadri.
Ed è forse anche per questo che il gesto che cerca in questa desistenza la sua perfezione, sembra esausto, spossato, ma non per questo meno ostinato, meno tenace e meno persistente.
"Per l’ultimo Piero si potrebbe parlare di una maniera della spossatezza, come Gilles Deleuze ha detto una volta: la postura dell’esausto è una postura del pensiero".
Spossato significa senza possa, e come tutti i termini con la S privativa, sembra evocare quello che viene a mancare, quasi che nello spossato sia presente la potenza, che poi si spegne. E si affievolisce.
"Mi viene in mente quello che Paolo scrive nella seconda lettera ai Corinzi, quando Dio gli dice: la mia potenza si compie nella debolezza. In quella occasione Paolo parla di una spina nella carne. Ecco, è come se la spossatezza, nell’ultimo Piero, fosse conficcata nella carne come una spina, ma la sua è una spossatezza che non cessa di chiedersi cosa significa dipingere.
Nelle ultime tele di Piero si compie lo stesso miracolo del quadro Las Meninas di Velasquez, in cui il pittore dipinge non solo ciò che vede, ma la stessa potenza della pittura.
Se è vero che l'ultima pittura di Piero è tutta giocata sulla luce, che cos'è la luce se non la possibilità di afferrare l’arte stessa della pittura?! Si potrebbe parlare per Piero di uno stile della spossatezza, una maniera esausta, ma non per questo meno implacabile e presente.
In un testo che scrissi anni fa per una mostra di Guccione, mi soffermai sull'aggettivo "tenue", ad esempio nel poema di Lucrezio. Tenue non significa fioco, debole, ma conformemente alla sua etimologia che viene dal verbo "tendo", tenue significa teso, fino a diventare sottile, impercettibile, assottigliato. Nel poema di Lucrezio tenue è la natura degli Dei, definiti cioè tesi, sottili; e tenui sono i simulacri, che per Lucrezio sono una membrana sottile che si distacca dai corpi per rendersi visibile. In questo senso parlavo allora di una tenuità della pittura di Piero, perché tenue e impercettibile è quell'incontro della terra e del mare, incontro stremato, dono e legato impareggiabile, interminabile, non finito, tanto più alto ed eccelso perché sulla tela Guccione è riuscito a rappresentare lo stesso medio diafano e invisibile della pittura.
Per questo, ogni volta che mi trovo sulla marina dove Piero soleva passeggiare quasi ogni mattina, non posso che pensare questo esausto e inesauribile dono di luce".